Rimbalzando tra il racconto delle corporazioni medievali, in storia, e la costruzione dello stato ideale platonico, inciampiamo, in classe, in un guaio. Sì, perché ci troviamo di fronte, con vari gradi di consapevolezza, allo spirito dell'Arte che la tradizione occidentale ospita ma che la scuola sembra aver scordato.
Leggo ai ragazzi qualche riga tratta da "L'uomo artigiano" di Richard Sennett: «La maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso».
Le arti, associazioni di mestiere alla base del trionfo fiorentino, proteggevano certo pesanti interessi politici, ma nello stesso tempo si fondavano sulla trasmissione generazionale della più fine capacità tecnica, si trattasse delle abilità mercantile della Calimala o delle indicazioni pratiche di Fornai o Fabbri. L'azione del produrre - la poiesis greca - come competenza nella realizzazione di un manufatto o nella scelta di un tessuto, possiede la regola in se stessa, e non nel guadagno possibile, essenziale, ma, nel processo, secondario.
Non diversamente, l'ora di lezione successiva, incontriamo la oikeiopraghia platonica: ognuno, nella comunità civile, sia chiamato a far ciò che più gli compete, ciò che gli è più proprio. Non è l'obbedienza ad un dovere esteriore, ma ancora una volta ad un criterio interiore, frutto della conoscenza di sé, nata dalla capacità di avere uomini giusti come riferimento.
Ed ecco il guaio: ci accorgiamo, con i ragazzi, che la valutazione (i voti dei compiti e delle interrogazioni) non è l'attesa misurazione della validità di un prodotto e di un processo, ma al contrario costituisce la minaccia che, artificialmente, dovrebbe portare allo studio.
S'interroga per far studiare. Dove è finito l'impulso naturale a far bene un lavoro per se stesso? In quale momento insegnanti e alunni possono avere la possibilità di confrontarsi su quanto la propria natura (qualunque cosa sia) percepisce come coerente e adeguato a se stessa? Che siano adolescenti - letteralmente "in crescita" - non significa che non possano decifrare la densa gamma di sfumature, intellettive ed emotive, che abita loro.
scritto da Giovanni Realdi