L’esigenza di pensare a un’altra idea di salute rappresenta un’opportunità per poter dare risposte più adeguate alle domande e ai bisogni emergenti dal quadro epidemiologico e demografico contemporaneo, caratterizzato da incremento della cronicità e dall’allungamento della vita media. A queste si deve aggiungere un’ulteriore complessità determinata dall’irruzione della Information Tecnology Communication (ITC) nell’area della salute che, se adeguatamente governata, rappresenta una grande opportunità. Dal 20091 nasce l’esigenza di chiarire se la salute possa essere considerata ancora uno stato o piuttosto una abilità, individuando un concetto più dinamico e meno statico rispetto a quello tradizionalmente riconosciuto dall’OMS nel 19482. Ovvero una definizione di salute meno rigida, orientata a modalità di “salute possibile”, in grado di confrontarsi con i concetti di adattabilità ed equilibrio (resilienza). Questo cambiamento non solo incide su modelli organizzativi e gestionali dei processi di cura, ma anche su ruolo e funzione delle figure della cura.
Oggi un professionista è un soggetto che, dotato di responsabilità, autonomia e sapere specifico, è in grado di garantire e facilitare ai cittadini la fruizione dei diritti di cittadinanza (salute, assistenza, giustizia, ecc.). Non più dunque un soggetto isolato, spesso trincerato dietro un sapere accademico e auto-referenziale, che esercita la propria professione con una modalità quasi “sacerdotale” (Gawunde, 2016). Oggi i professionisti che operano nell’ambito della salute devono sempre più aprirsi a competenze collaborative e a logiche di connessione. Devono essere professionisti collaborativi orientati nelle loro attività a una “prassi di accompagnamento” e più relazionale utilizzando, tra gli altri, strumenti adeguati di sviluppo del coinvolgimento, della partecipazione e del self-management dei cittadini quali ad esempio l’empowerment e il family learning (Vicarelli 2018).
La nascita delle cure dell’accompagnamento
L’attuale strutturazione del sistema sanitario in Italia prevede una differenziazione in livelli: le cure primarie, secondarie e terziarie (Curto e Garattini, 2014). Questo modello di stratificazione del SSN, si fonda su una matrice gerarchica, utile e necessaria in una fase di start-up di un sistema che, traghettato da quello mutualistico, doveva realizzare un impianto universalistico, centrato sui diritti della persona, con l’obiettivo della tutela “totale e completa” dello stato di salute del cittadino.
La Dichiarazione di Alma Ata del settembre del 1978 può essere considerata come l’atto fondante dell’assistenza primaria, definita come un “sistema globale” che garantisce il diritto alla salute ai cittadini. All’interno di questa definizione troviamo un passaggio che individua - in termini di prassi professionale praticabile per gli individui, le famiglie, le comunità - un ambito le cui caratteristiche sono quelle della «prima occasione di contatto con il SSN […] il più vicino possibile ai luoghi di vita e di lavoro, costituendo […] il primo elemento di un processo continuo di assistenza sanitaria». Sono le cure primarie, di cui possiamo dare una definizione più pratica e operativa con le parole che Pringle nel 1998 usa per definirne i “core values”: coordinamento, continuità (estensività), comprensività (presa in carico complessiva) e accessibilità; parole che definiscono anche i contorni di uno specifico approccio di cura definito, appunto, primario. Anche le modalità operative delle figure che operano all’interno di questi “luoghi di cura”, si inscrivono in una prospettiva relazionale di tipo collaborativo, associata a una di connessione professionale.
Quali figure coinvolte?
Quali sono le figure coinvolte in questo percorso di prossimità e accompagnamento? Rischieremmo di dover indicare una lista molto lunga di soggetti. Da quelli formali (medici, infermieri, tecnici, assistenti sociali, collaboratori di studio, ecc.), a quelli informali: caregivers soprattutto, ma anche le associazioni dei malati e della società civile, il mondo del volontariato, i sindacati, i social, oltre alla presenza di più professioni non mediche, orientate a far valere le proprie specificità e competenze in questa area (Ingrosso, 2016). La medicina generale si trova in una posizione strategica all’interno di questo ambito sia per una intrinseca condizione di prossimità, sia per una serie di processi “rifondativi” che, a partire dal 2007, l’hanno coinvolta, sottoponendola a un cammino di trasformazione, non senza traumi, dentro il sistema delle cure in Italia.
Il primo di questi processi era già iniziato negli anni 80 con l’avvio della modalità di esercizio professionale conosciuta come “associazionismo medico”3 ed è stato assunto successivamente come modello operativo dalle regioni dall’art. 1 del decreto Balduzzi nel 2012. Esso prevede che le forme organizzative della medicina generale possano dividersi in monoprofessionali denominate Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) e multiprofessionali (UCCP)4.
Questo percorso aggregativo ha raccolto tutta quella serie di forme associative della medicina generale, che negli anni si sono costituite, con diversi gradi di complessità e integrazione (medicina di rete, di gruppo, cooperative, nuclei di cure primarie, équipe territoriali, ecc.), all’interno delle quali è costantemente e significativamente cresciuta la presenza di un numero di collaboratori non medici, appositamente formati. Tutto questo sviluppo innovativo ha favorito la migrazione della tradizionale figura del medico singolo verso una maggiore pratica professionale aggregativa, consentendo una migliore organizzazione degli studi. Esso ha implementato una migliore accessibilità e disponibilità della medicina generale, rendendola di maggior prossimità e fruibilità.
Questo sviluppo ha altresì portato con sé l’esigenza di dotarsi e confrontarsi in maniera più ravvicinata con competenze non esclusivamente mediche, trasferendole a personale che, dopo adeguata formazione, possa operare nei diversi ambiti in cui si articola la medicina generale: da quello amministrativo-burocratico, di assistenza e cura della persona e, più di recente, quello delle dinamiche sociali che sempre più di frequente si presentano nello studio del medico di famiglia (Moretti e Mammoli, 2011). Tutto questo al fine di realizzare una sorta di “unità territoriale professionale” dove, oltre al medico/medici, sono presenti una serie di collaboratori per gli aspetti amministrativi, di assistenza alla persona, di assistenza sociale, nonché attrezzature di primo livello, così che la micro-struttura del medico di famiglia possa usufruire di una sua organizzazione, per essere un nodo pro-attivo nella rete dei servizi. Ovvero offrire servizi di prossimità ispirati a una logica di medicina di iniziativa affinché il processo di cura consenta di:
• valutare con più attenzione i bisogni della comunità, compresi quelli “distali”;
• attivare percorsi di mantenimento/rafforzamento della salute possibile (registro patologie, richiami programmati, stratificazione dei rischi, vaccinazioni ecc.);
• coinvolgere e motivare gli utenti, le famiglie, i caregivers sviluppando, attraverso percorsi di empowerment e family learning, maggiori competenze di self-management.
In questa prospettiva, il ruolo tradizionale del medico di medicina generale, definito soprattutto dal SSN inglese “Gate Keeper”, si modifica e può essere indicato come “Care Process Owner”, ovvero un coordinatore delle cure territoriali, in stretto contatto con i professionisti che condividono con lui percorsi di cura, secondo un approccio primario ai problemi di salute delle persone.
Fonti
- Health Council of the Netherlands: Report Invitational Conference “Is health a state or an ability? Towards a dinamic concept of health” – July 13, 2010.
- La definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità recita che «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia».
- Accordo Collettivo Nazionale per la Medicina Generale 1980 DPR 13/8/1981 ai sensi dell’art. 48 L. 23/12/78 N. 833.
- Le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) condividono, in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi. Le forme organizzative multiprofessionali, denominate Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP), erogano, in coerenza con la programmazione regionale, prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei medici, delle altre professionalità convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria.
scritto da Massimo Magi, pubblicato in Madrugada 110, rivista trimestrale di Macondo