Ecco qua. Da sei giorni c’è un altro bastimento carico di profughi che aspetta in mezzo al mare. Si chiama “Lifeline”, come la ONG tedesca dell’equipaggio che continua ad ostinarsi a pescare migranti invece che cefali e orate. Il governo maltese e quello italiano si accusano reciprocamente nella gara della disumanità. L’Europa discute e si accapiglia. Intanto il mare si ingrossa. I viveri scarseggiano. Nessun porto accogliente all’orizzonte. La stessa identica storia della nave Aquarius, ma questa volta la notizia “non fa più notizia”, e d’ora in poi le cose andranno sempre peggio.
“Lifeline” si traduce letteralmente “la linea della vita”. E’ anche la linea della vita che qualcuno vuol leggere sulla nostra mano sinistra, il nostro destino. Che in questo caso, il caso dei 218 migranti ospiti della nave Lifeline e ostaggi dell’Europa egoista, non sembra un destino molto favorevole. Salvati dalle onde… per poi essere messi in attesa, sospesi sine die, fuori dalla porta e dai porti del Continente dei vecchi.. Una destinazione sempre più incerta, un destino che diventa sempre più una chimera.
E’ bello a volte, è istruttivo, scavare nelle parole. Perché “lifeline” è anche una espressione idiomatica. Sta per il nostro “ancora di salvezza”. Da qui probabilmente la scelta del nome della ONG tedesca e della nave olandese che ha acquistato - a proposito, è olandese o non è olandese?, ecco il rebus assillante che si sono posti in questi giorni governanti, funzionari e giornalisti d’inchiesta.
Riassumendo. Una nave dal nome promettente, “l’ancora della salvezza”, ha tratto in salvo uomini, donne e bambini che scappavano dalla fame e dalle guerre. Mettetevi per un minuto nei panni di uno di questi migranti - va bene, chiamateli pure clandestini come li chiama Salvini, perché il ministro non ha tutti i torti, è vero, sono clandestini: nessuno di loro ha acquistato il viaggio da Costa Crociere. Dunque siete lì, stipati come sardine su un gommone pericolante, bagnati fino al midollo. Arriva una nave. Si ferma. Accosta. Dal ponte vi urlano qualcosa, vi lanciano un giubbotto salvagente (nuovo, pulito, arancione: una cosa così bella non l’avete mai vista), poi vi fanno salire sulla nave, vi avvolgono in una coperta di lana, vi danno qualcosa da bere e da mangiare.
Ma mentre vi caricano dal gommone sulla nave, avete visto quella grande scritta sulla fiancata: “Lifeline”, una parola in una lingua che non conoscete, che non è la vostra lingua. E adesso che vi siete un po’ ripresi, vi viene la curiosità di sapere come si chiama la nave che vi ha salvato, Cosa significa quella parola? E quando ve lo dicono, quando uno dell’equipaggio vi spiega che quella nave si chiama “l’ancora della salvezza”, quando vi assicurate che non è uno scherzo, che quella nave si chiama proprio così, vi succede una cosa inaudita. Dopo settimane, dopo mesi di travaglio, vi viene da ridere.
Perché allora può esserci un destino diverso, può esserci la fine della fame e della guerra. Può esserci una terra benigna e una nuova vita. Può, anzi, deve esserci! Non è forse un segno essere stati salvati dal mare proprio da un’ Ancora di salvezza? Come aver incontrato l’Arca di Noè, con al timone Noè in persona.
Come e perché la “Lifeline” con il suo carico dolente di migranti debba ancora rimanere ferma in mezzo al mare, in attesa di una accoglienza che non arriva, come possano l’Italia e l’Europa negare “un’ancora della salvezza” e proporre di fatto, come soluzione alternativa, “un sasso al collo”, è la tragedia morale di queste ultime settimane. Del nostro tempo. Una tragedia morale che non è minore o meno spaventosa della tragedia umanitaria dei profughi africani.
scritto da Francesco Monini