La salute al centro di un campo di forze
La salute non è più appannaggio dei soli medici e dei cerusici che affollano tanta letteratura, lo sapeva già allora la bella Bambina dai capelli turchini. Solo negli ultimi anni però il sostantivo “paziente” è diventato anacronistico: denotando la persona affetta da una malattia ed è affidato alle cure di un medico o di un chirurgo connota anche chi è disposto a moderazione, tolleranza o rassegnata sopportazione. Il cosiddetto “paziente” non ricopre più il ruolo di recettore passivo di indicazioni e posologie, ma è divenuto protagonista attivo e legittimamente riconosciuto dei percorsi di cura e prevenzione.
La figura tradizionale del medico invece non ha conosciuto una parallela evoluzione politica e sociale: la professione è diventata meno ambita e meno gratificante in termini di status economico e sociale, spesso guardata con sospetto e arroccata in posizione difensiva. Tutto questo mentre la medicina progredisce, valendosi dell’apporto di nuove tecnologie e di nuove scoperte nonché diventando sempre più rigorosa nell’applicazione dell’evidenza scientifica. Ma l’oggettività scientifica e la soggettività dell’individuo sono categorie destinate a perpetua asimmetria se non guardiamo al campo della relazione tra la scienza e l’uomo come a una “polarità”: una dinamica tensione tra opposti che ci preservi dalla tentazione di assolutizzare un polo o l’altro del campo magnetico.
Accogliamo quindi con sollievo il recente e promettente “contagio” delle prospettive offerte dalle Medical Humanities e il loro situarsi come luogo di incontro tra la medicina e le scienze umane e sociali. Comincia a farsi strada l’idea che l’evidenza scientifica è necessaria ma non sufficiente a fornire la massima qualità negli interventi di cura se parallelamente non si coltivano le competenze legate alla sfera umana della comprensione e dell’ascolto, la tensione dialogica necessaria per ricostituire l’altro, nella sua storia di salute e malattia, come portatore di una prospettiva autonoma capace di potenziare il percorso verso la salute ritrovata o l’accettazione della malattia. Nella prospettiva delle Medical Humanities, inoltre, parlare di salute di un individuo isolato è una contraddizione in termini.
La salute come responsabilità collettiva
Una definizione è un tentativo di circoscrivere e dare dei limiti (“fines”) a una materia complessa. La salute è materia complessa perché attorno a essa, o alla sua assenza, si dipana il filo della vita, la qualità della nostra vita. Secondo la definizione proposta da Marco Ingrosso:
«La salute consiste nella capacità (per gli esseri umani) di mantenere il proprio equilibrio vitale, di affrontare gli eventi della vita, di adattarsi ai cambiamenti del proprio ambiente. La salute necessita di ambienti favorevoli alla vita umana, di adeguate relazioni sociali e di opportune forme di cura reciproca e organizzata. Le condizioni che permettono a un gruppo sociale e ai suoi membri di mantenere e sviluppare la salute costituiscono un bene comune da promuovere e tutelare».
La salute è quindi un bene prezioso da perseguire nella pratica clinica quotidiana ma da assumere anche come una responsabilità collettiva in grado di integrare le complessità sempre maggiori legate alla sua tutela. La globalizzazione, il degrado ambientale, la riduzione delle risorse e dell’accesso ai servizi sanitari, la povertà crescente, l’aumento delle diseguaglianze: sono tutti fenomeni che incidono sui sistemi di Welfare e che implicano la necessità di dare delle risposte integrate ai bisogni di salute. La tutela della salute è ormai uscita dai luoghi a essa tradizionalmente deputati (ospedali e ambulatori) ed è entrata nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nei centri commerciali, nei mezzi di informazione, nei social network; copre l’intero arco della vita; si esercita attraverso l’educazione e la promozione di stili di vita a essa favorevoli.
La comunità che cura
Una società invecchiata, il contestuale incremento delle patologie croniche e la riduzione delle risorse finanziare inducono a destatalizzare e deospedalizzare i servizi con l’obiettivo, non sempre mantenuto, di potenziare la loro trama a livello del territorio, richiamando nello stesso tempo i cittadini alla partecipazione attiva. Lo chiamano empowerment e consiste nel trasferimento alla comunità, nelle sue varie forme di reti sociali e informali (famiglia, volontariato, reti amicali e di vicinato), del controllo di parte dei processi di cura. Questo passaggio progressivo potrebbe consentire, qualora adeguatamente governato, la possibilità di una maggiore integrazione delle persone nel loro contesto di vita, al di fuori dei confini segreganti dell’ospedale e, da parte della comunità intera, dell’appropriazione di un ruolo attivo e diretto nel cambiamento sociale.
Curare la comunità
I rischi e le deviazioni possibili nella costruzione di questa rete sono molteplici. Il primo, il più avvertito: la sensazione di solitudine e di abbandono da parte di tante famiglie, le quali, venuto meno il ruolo dell’ospedale come centro e collettore della domanda di salute, si trovano spesso disorientate e perse in una rete ancora aggrovigliata o a maglie troppo larghe. Parafrasando Bauman (2009), la tentazione a cui in queste condizioni si rischia di cedere è quella di continuare a “cercare soluzioni private a problemi di origine sociale” anziché favorire lo sviluppo tra le reti formali e informali di cura di un incontro creativo e collaborativo, di una relazione di reciproco potenziamento e accrescimento tra una cittadinanza veramente attiva e politiche veramente sociali.
Per generare una “comunità che cura” è necessario prima di tutto “generare comunità”, oltre ogni collettivismo e oltre ogni individualismo: noi che la abitiamo, noi istituzioni, noi cittadini. La salute è un bene comune, vale a dire un bene che non appartiene all’individuo se non appartiene alla comunità intera e che quindi solo si può tessere in un “noi”: nella capacità di ricercare, coltivare e mantenere quell’equilibrio dinamico che viene dalla relazione, dal rimando dialogico con sé stessi, con gli altri e con il mondo. Un noi che facciamo parte di «una società dove non siano, come credono gli sciocchi, aboliti il dolore, l’angoscia spirituale e fisica, la problematicità della vita, ma esistano gli strumenti per condurre una comune concorde lotta contro il dolore, la miseria, la morte» (Cesare Pavese, 1951).
La salute solo si può inserire in una dimensione “ecologica” in cui tutto è connesso e tutto è in relazione, dove anche la malattia, anche la morte, assumono la potenzialità di darsi in una prospettiva di salute e dove la cura diventa un atto quotidiano e tangibile del nostro esserci, su questa Terra, gli uni per gli altri.
scritto da Chiara Zannini, pubblicato in Madrugada 110, rivista trimestrale di Macondo