La teoria della Restorative Justice, resa in italiano con l’espressione giustizia riparativa, costituisce una radicale messa in questione di un topos particolarmente consolidato all’interno del diritto penale e non solo. Sulla base di tale topos, la pena andrebbe concepita come la giusta retribuzione per il male commesso; inoltre essa, per poter corrispondere a un simile obiettivo di compensazione rispetto al reato, dovrebbe assumere una valenza afflittiva, in primis attraverso la detenzione.
La forza del paradigma retributivo è tale che esso viene solitamente accreditato come l’unico ragionevole e plausibile, nonostante i numerosi interrogativi che esso solleva in merito al significato stesso della pena, alla sua effettiva efficacia, alla considerazione della figura della vittima e del colpevole, allo stesso ruolo della collettività, che risulta essere di sostanziale estraneità rispetto alle vicende processuali e poi alla concreta esecuzione della pena in un luogo altro, separato anche visibilmente rispetto alla ‘normalità’ del vivere quotidiano.
L’unicità rivendicata del paradigma retributivo può inoltre caricarsi di ulteriore valenze, da quella preventiva a quella rieducativa: nel primo caso la retribuzione svolge anche la funzione di prevenire la reiterazione del reato da parte del soggetto reo medesimo o da parte di altri soggetti e costituisce quindi una forma di deterrenza; nel secondo caso essa persegue una finalità rieducativa (vd. Cost., art. 27), di umanizzazione della pena, volta ad attutirne la carica afflittiva, in vista della riabilitazione del reo e auspicabilmente di un suo reinserimento nel contesto sociale, una volta che la pena stessa sia stata scontata.
Il paradigma della giustizia riparativa contesta la legittimità di questa pretesa ovvero che si dia un’unica e univoca accezione di giustizia in ambito penale, identificata con quella di tipo retributivo. Il punto di partenza della diversità rivendicata dalla giustizia riparativa potrebbe essere individuato nella differente comprensione del significato del reato; secondo tale prospettiva il reato non è solamente (o non è primariamente) una lesione che ferisce il corpo sociale, minacciando l’ordine costituito, lesione alla quale si deve rispondere con una pena da espiare; il reato, piuttosto, è in sé e per sé un’offesa che colpisce le vittime, causando sofferenze, dolore, perdite anche gravi, a volte persino la morte. La vittima nella prospettiva retributiva è la grande dimenticata: basti pensare alla stessa dinamica processuale, la quale ruota attorno al rapporto tra l’accusato, fisicamente presente, e l’intero corpo sociale, simbolicamente rappresentato nel dibattimento.
Nella giustizia riparativa invece l’attenzione si sposta sul danno patito dalla vittima e soprattutto sull’attivazione di modalità di riparazione del danno: più che domandarsi chi sia colui che meriti di essere punito o quali siano le sanzioni proporzionate al reato compiuto, ora ci si chiede che cosa si possa fare per riparare al danno prodotto. Quest’ultimo interrogativo non esclude ovviamente che siano pienamente legittimi anche gli interrogativi sulla colpevolezza del soggetto e sulla sua adeguata punibilità; ma si tratta di domande successive, che si chiariscono alla luce della domanda fondamentale, quella che indirizza il focus sulla vittima e su come si possa riparare al danno da lei patito.
La centralità della dimensione riparativa, da non intendersi riduttivamente nei termini di una mera compensazione economica, segnala più in generale quanto siano rilevanti i legami e le relazioni all’interno del corpo sociale. Un delitto, un reato, una violenza contribuiscono a insidiare i buoni legami e a minacciare o addirittura a stroncare le relazioni, grazie alle quali la vita dei soggetti cresce e prospera. Non tutti i legami e non tutte le relazioni aiutano i soggetti a realizzarsi; ve ne sono alcuni che s’impongono con la violenza, il sopruso, il disprezzo a vario titolo dell’altro; ed è questo genere di legami, espressione di una logica fortemente asimmetrica di esercizio indebito di potere e di sudditanza, che minaccia la sussistenza dei buoni legami e delle buone relazioni che arricchiscono il vivere sociale.
L’evento criminale per un verso è espressione di legami di disprezzo e di sudditanza, per un altro verso contribuisce a spezzare quei legami buoni, di riconoscimento reciproco, e ciò avviene in primo luogo con riferimento alla vittima, misconosciuta di fatto nella sua personalità giuridica e ancor prima morale. La giustizia riparativa intende ricostruire le relazioni compromesse e lesionate, e di nuovo a partire dalla centralità della figura della vittima sino a interessare potenzialmente l’intero corpo sociale; una tale forma di giustizia, proprio per la cura che riserva alla dimensione dei legami e delle relazioni, può quindi a buon diritto essere qualificata come relazionale.
Ma che cos’è propriamente la giustizia riparativa? Per rispondere al quesito, possiamo riferirci alla Direttiva 2012/29 dell’Unione Europea, dove viene proposta una definizione completa e circostanziata, coerente anche con i Basic Principles della Risoluzione n. 12/2002 del Consiglio Economico e Sociale dell’ONU e con i risultati ai quali è pervenuta negli ultimi decenni la letteratura specialistica sul tema. Secondo tale definizione, per giustizia riparativa s’intende «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».
Emergono qui alcuni elementi qualificanti e irrinunciabili che possono essere così riassunti: la giustizia riparativa, per esplicarsi, presuppone la partecipazione attiva da parte sia della vittima che dell’autore del reato; tale partecipazione – si badi bene – dev’essere volontaria; inoltre ha lo scopo di ristabilire la relazione tra il colpevole e la vittima, che ha subìto una lesione a causa del reato perpetrato; più in generale la giustizia riparativa si prende cura dei conflitti relazionali prodotti dall’evento criminoso; infine, tale dinamica si sviluppa grazie alla mediazione di un terzo imparziale (M. Umbreit, The Handbook of Victim – Offender Mediation, San Francisco 2001).
L’attenzione verso la dimensione relazionale tra i soggetti implicati e tra questi e la comunità è – come si diceva – fondamentale: la ricerca di una soluzione che promuova la riparazione e la riconciliazione non interessa solo la vittima e il colpevole, ma indirettamente permette di rafforzare il senso di sicurezza collettivo.
Non va poi sottovalutata la rilevanza del requisito della volontarietà, senza il quale semplicemente non si possono promuovere interventi e processi ispirati alla giustizia riparativa. Da questo punto di vista è opportuno anche mettere in guardia rispetto a possibili fraintendimenti, quali quelli che riconducono alla logica della giustizia riparativa misure, oramai ricorrenti anche nel nostro ordinamento, quali le pene alternative, i lavori socialmente utili, le interdizioni, le pene simboliche. Tali misure indubbiamente segnalano un superamento della logica retributiva; in esse però manca l’elemento della volontarietà, senza il quale non si può parlare di giustizia riparativa.
scritto da Antonio Da Re, estratto da Paradoxa 4/2017.
segnalato da Alessandro Bruni