Nella Torà
«Osserva queste tre cose e non commetterai peccato: sappi cosa sta sopra di te, l’occhio vede e l’orecchio ascolta e tutte le tue azioni sono scritte in un libro» (Pirqè Abot 2:1).
Di solito ci manca la consapevolezza. Più facilmente rendiamo conto agli altri, alla società piuttosto che a Dio. Lo studio dei precetti aiuta l’uomo a sentire la presenza divina in ogni luogo, in ogni incontro e in ogni fatto.
Il giorno in cui il corpo e l’anima si presenteranno davanti al Trono del Giudizio dovremo rendere conto di noi stessi fino all’ultimo dettaglio. Il corpo è la parte inferiore dell’uomo e l’anima regna sul corpo e a lei verranno poste alcune domande: «Hai gestito onestamente i tuoi affari? Hai stabilito periodi di tempo per lo studio della Torà? Hai compiuto il tuo dovere di crearti una famiglia? Hai sperato nella salvezza (dei tempi messianici)? Hai ricercato la saggezza? Hai cercato di dedurre cosa da cosa?» (Shabbat 31a).
Logicamente ci aspetteremmo che il malvagio venisse punito e il giusto venisse premiato per le sue azioni. Dio è giusto in tutte le sue vie e allora come mai questo non sempre accade?
Risponde il Talmud: Noi non possiamo discutere le decisioni di Colui che parlò e il mondo fu; ma Egli giudica tutto in verità e ogni cosa è conforme alla giustizia (Mekhilta a 14,29; 33a). Questo significa che la mente umana non può comprendere il disegno di Di-o: «La punizione non viene sul mondo senza che vi siano in vita dei malvagi; ma comincia dai giusti com’è detto: “Se un fuoco divampa e si incontra con spini, brucia sì che prima sono stati consumati i covoni di grano”» (Esodo 22:6) (Baba Kama 60a).
«Il giusto soffre e il malvagio gode»: ciò significa che il giusto trattiene il male per non far sì che si espanda, mentre il malvagio tiene egoisticamente per se stesso il bene, lasciando al mondo il male.
A volte viene stabilito che i buoni soffrano a causa dei malvagi per gli errori di una generazione colpevole: «Come punizione per non aver servito il Signore Dio tuo con gioia e con letizia quando avevi tutto in abbondanza, servirai il nemico che il Signore manderà contro di te, nella fame e nella sete, nella mancanza di vestiti e nella penuria di tutto» (Deut. 28:47-48).
Il lato positivo della sofferenza è questo che migliora e avvicina il mondo a venire (del Messia) «poiché il Signore corregge coloro che ama» (Proverbi 3:12).
Quando il peccatore ha pagato il debito, ha fatto tikùn, ha rimediato al danno e questo è l’essenziale. Peccato, dalla parola chet, significa mancare il bersaglio. In questo senso il peccato è il risultato di una azione errata commessa per ignoranza, cattiveria o malanimo e sta al colpevole rimediare. La “punizione” è la sofferenza provocata dall’azione errata.
Esiste il libero arbitrio. «La Tua giustizia è elevata come i monti più alti; le Tue sentenze sono profonde come il grande abisso» (Salmi 36:7). I giusti meritano le alture della Torà data sul Sinai mentre i malvagi gli abissi: al singolo individuo la scelta.
«Osserva queste tre cose e non ammetterai peccato. Sappi da dove vieni e dove devi andare e di fronte a chi dovrai rendere conto. Da dove sei venuto? Da una goccia puzzolente. Dove andrai? In un luogo di terra e vermi; di fronte a chi dovrai rendere conto? Al Re dei re, il Signore, Benedetto Egli sia» (Pirqè Abot 3:1).
scritto da Yarona Pinhas, pubblicato in Madrugada 64
Nel Corano
Si narra che Rabia al-Adawiyya, la principale mistica dell’Islam, vissuta nel II secolo dall’Egira (VIII d.C.), andasse in giro per le strade della città di Bassora (Iraq) con una fiaccola e un secchio, e quando qualcuno, stupito, le chiedeva che cosa significasse tutto ciò, lei rispondeva che voleva appiccare il fuoco al Paradiso e versare acqua nell’Inferno, affinché questi due veli della religione scomparissero e nessuno più dovesse pregare Iddio per desiderio del Paradiso o paura dell’inferno, ma Lo adorasse solo per amore.
Questa concezione del premio e del castigo, che ritroviamo quasi uguale in grandi mistici cristiani come San Giovanni della Croce, è il segno maggiore che, ben oltre le forme sostanzialmente rigide delle dottrine e delle ritualità, l’afflato spirituale che dovrebbe spingere i credenti ad avvicinarsi appassionatamente al loro Creatore, nella tradizione abramitica è comune.
Forme alte e talmente lontane dalla quotidianità delle umane creature che hanno piuttosto bisogno di qualcosa che sia più concretamente percepibile in base alla loro esperienza sensibile, e quindi il castigo sia fuoco (an-Nar), fiamma (al-Sair), fornace (al-Jahim), galera (al-Sijjin), baratro (al-Hawiya), voragine (al-Hutama), il calore bruciante (al-Saqar)…
Nel Corano troviamo 71 versetti in cui il concetto di castigo è presente e la prima cosa che notiamo è che esso è inteso, salvo poche eccezioni, sempre come castigo di Allah e non degli uomini, è Dio che castiga sia in questa vita che nell’altra.
«Ma Allah ha scalzato le basi stesse delle loro costruzioni, il tetto rovinò loro addosso e il castigo venne loro da dove non lo aspettavano…» (Le api, 26-27).
«… Negarono i nostri segni. Inviammo contro di loro un vento impetuoso e glaciale, in giorni nefasti, affinché gustassero ignominioso castigo già in questa vita. Ma il castigo dell’Altra vita è più avvilente e non saranno soccorsi…» (Fussilat, 15-16).
In effetti la stragrande maggioranza dei versetti parla del castigo associandolo al Giorno finale e al fuoco, quindi in una prospettiva escatologica, in cui inferno e castigo sono sinonimi. Come se la giustizia in questo mondo non possa essere che parziale.
Il castigo appartiene a Dio, perché Egli è Colui nel Quale giustizia e misericordia si compenetrano, Colui che non confonde.
«[O Muhammad], annuncia ai Miei servi che in verità Io sono il Perdonatore, il Misericordioso, e che il Mio castigo è davvero un castigo doloroso» (Al-Hijr, 49-50).
«La Rivelazione del Libro [proviene] da Allah, l’Eccelso, il Sapiente, Colui che perdona il peccato, che accoglie il pentimento, che è severo nel castigo, il Magnanimo. Non c’è altro dio all’infuori di Lui. La meta è verso di Lui…» (Il Perdonatore 2-3).
Allahumma,
in ogni giorno che sorge
hai messo una speranza e un timore.
Vivremo il tempo che ci concederai
dall’una corroborati, dall’altro temperati.
Giungeremo alla notte
senza certezze sull’esito delle azioni nostre.
Dacci il desiderio di Te
oltre il premio e il castigo,
senza il velo d’altre passioni o paure.
«In verità, nella creazione dei cieli e della terra
e nell’alternarsi della notte e del giorno, ci sono certamente segni per coloro che hanno intelletto». [Corano III, 190]
scritto da Hamza R. Piccardo, pubblicato in Madrugada 64
Nel Nuovo testamento
«Gesù camminava per il villaggio, quando un ragazzo, correndo, andò a urtare contro la sua spalla. Gesù, irritato, gli disse: “Non percorrerai tutta la tua strada”. E subito cadde morto». Gesù era ancora un bambino quando accadde questo fatto; i genitori del ragazzo morto andarono dunque a rimproverare aspramente suo padre. «Allora Giuseppe, chiamato il ragazzo in disparte, lo ammoniva dicendo: “Perché fai tali cose? Costoro ne soffrono, ci odiano e perseguitano”. Gesù rispose: “Io so che queste tue parole non sono tue. Tuttavia starò zitto per te; ma quelli porteranno la loro punizione”. E subito gli accusatori divennero ciechi».
Chi ha una qualche familiarità con i Vangeli si accorgerà subito di non aver mai ascoltato questo episodio della vita di Gesù; è preso infatti dal cosiddetto Vangelo di Tommaso, uno di quei vangeli apocrifi che le prime comunità cristiane non hanno mai accolto come espressione della propria fede, perché non sono basati sulla testimonianza degli apostoli. In questo caso si tratta di un fatto inventato nel secondo secolo d.C. o forse dopo, nel tentativo maldestro di dire qualcosa sull’infanzia di Gesù.
Comunque sia, la lettura di questo testo è utile, perché si vede meglio qual è invece il tono generale dei “nostri” vangeli: Gesù non agisce mai in modo violento; non fa mai un miracolo per punire qualcuno, come castigo per una qualche colpa commessa. Anzi, se leggiamo con calma, una riga dopo l’altra, tutti e quattro i vangeli, non vi troveremo neanche una volta il vocabolo “castigo” o il verbo “castigare” (a parte quando Pilato promette di far castigare severamente Gesù, prima della crocifissione). Anche quando l’hanno preso, maltrattato, umiliato e alla fine messo a morte: nessuna reazione violenta da parte di Gesù.
In quei tempi era diffusa l’idea che la malattia fosse una punizione divina, qualcosa che Dio mandava come castigo a coloro che avevano commesso qualche peccato grave. E così capitò che un giorno Gesù «passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Attenzione alla risposta: «né lui ha peccato né i suoi genitori!» (Gv 9,2-3). Il concetto di malattia come castigo di Dio, vendetta divina contro i peccatori, è assolutamente estraneo al pensiero di Gesù.
Qualche volta Egli parla del castigo: lo fa in riferimento al giudizio finale, per dire ai suoi ascoltatori che bisogna stare attenti; perché in quel giorno i giusti se ne andranno alla vita eterna, ma «i malvagi al supplizio eterno» (Mt 25,46: sono parole che Gesù pronuncia nel brano del cosiddetto “giudizio universale”; non c’è la parola “castigo”, ma il concetto di “supplizio” è equivalente). Più che una condanna, però, è un avvertimento, un preavviso che ha lo scopo di evitare proprio la condanna; anche quando troviamo sulle labbra di Gesù il «Guai a voi», non è per pronunciare una sentenza ma per avvertire chi lo ascolta che bisogna cambiare, altrimenti il giudizio non sarà favorevole.
Se Gesù, dunque, mette in guardia i suoi prospettando la possibilità di un castigo divino alla fine dei tempi, questo non è chissà che cosa: la punizione peggiore è che qualcuno, pur avendo davanti a sé la luce di Cristo, sceglie liberamente di amare le tenebre. È una scelta dell’uomo, non una vendetta di Dio. E se sragionando la gente grida a Pilato di crocifiggere Gesù, dicendo a gran voce: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,25), Egli addirittura li scusa, trovando il modo di evitare loro la condanna: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Questo è Gesù, un uomo profondamente buono; che dice: «imparate da me, che sono mite e umile di cuore; e troverete riposo per le vostre anime» (Mt 11,29).
scritto da Carlo Broccardo, pubblicato in Madrugada 64