Nuovismo e «antiquariato» (o, meglio, modernariato). Sono le due polarità tra le quali pendola l’orientamento del governo legastellato. E, come da regole del contratto, nell’esecutivo giallo-verde ci si trova a dover mediare non soltanto fra i programmi dei due partiti-movimenti diversamente populisti – che è esattamente la funzione notarile assegnata al premier Giuseppe Conte dai suoi due vice (e azionisti di maggioranza) – ma pure tra antitetiche suggestioni d’antan.
I due partner stanno così entrando in fibrillazione su Tav, Tap, grandi opere e infrastrutture, ma – come si sarebbe detto un tempo – le contraddizioni si annidano ormai nel cuore stesso del nuovo sistema. Questo è, infatti, un governo «anti-sistema» che punta palesemente a farsi nuovo sistema (e a dare vita al prossimo bipolarismo), in un mix di neo-ideologismo (come mostra la sua linea ambigua intrisa di sciagurate inclinazioni anti-vacciniste) e ripescaggio di pratiche che vengono dalla storia passata, quella prima di Tangentopoli e prima di quel giustizialismo che tanto ha contribuito a generare sia la Lega che il M5S. Ed ecco, quindi, il «governo del cambiamento» profumare molto di Prima Repubblica. Non per nulla, i suoi esponenti hanno baldanzosamente proclamato a più riprese la volontà di «ritornare all’Italia prima di Maastricht» (dalla quale arriva per direttissima anche il ministro Paolo Savona). Leader che sono capi-partito e – compresa la maggioranza degli eletti 5 Stelle – dei veri e propri politici di professione.
Pentapartito e pentaleghismo non sono ovviamente la stessa cosa ma, allora come oggi, si tratta di formule che prevedono il primato della politica (e, non di rado, del politicismo) rispetto agli altri attori e sottosistemi sociali – e perfino nei confronti della scienza, come ha detto in maniera sconsiderata l’oscurantista consigliere regionale No Vax del Lazio Davide Barillari (da cui il medesimo Davide Casaleggio ha dovuto prendere le distanze).
È uno dei tanti paradossi di questo neopopulismo che porta anche la fantasia linguistica e sintattica (diciamo così) al potere, come da ultimo con l’ossimoro dell’«obbligatorietà flessibile» delle vaccinazioni fabbricato dal ministro della Salute Giulia Grillo. Quello giallo-verde costituisce il laboratorio del populismo postmoderno, ma si è ben presto popolato di liturgie e litanie tipiche della Prima Repubblica, sebbene avvolte dentro un packaging innovativo (un’ulteriore riprova di come latitino le idee originali e le annunciate ricette «rivoluzionarie»). E, difatti, nella loro agenda piena zeppa di radicalismi, le misure propositive (a parte le due che presentano peraltro le peggiori controindicazioni: flat tax e reddito di cittadinanza) risultano tutte riesumate dal repertorio dell’antica – e vituperata – Repubblica «partitocratica».
Assistiamo così all’irresistibile voglia di una restaurazione delle partecipazioni statali verniciata di neo-statalismo, e sentiamo spacciare come inedito assoluto un contratto che non si rivela granché differente dai turbolenti «patti di legislatura» (con o senza staffetta) che si facevano nei problematici governi di coalizione degli Anni Settanta e Ottanta. A Palazzo Chigi i legastellati ci sono arrivati con il redivivo proporzionale, teorizzando come filosofia politica una sorta di interclassismo (anti-élite) e avendo quale riferimento un prototipo di Dc postmoderna (di destra, nel caso della Lega che cerca anche di appropriarsi dei simboli cristiani; «di sinistra», in quello della Balena gialla grillina). Sono riapparsi i caminetti e le cabine di regia per le nomine, la propensione alla lottizzazione rimane sempre quella, e Luigi Di Maio – non ce ne voglia – ha un po’ le physique du rôle del doroteo.
Del resto, il primo amore (di parecchi italiani) non si scorda mai: e, dunque, la cosiddetta «Terza Repubblica dei cittadini» nella sua fisionomia presenta molte tracce della Prima.
scritto da Massimiliano Panarari, pubblicato in La Stampa del 09 Agosto 2018
segnalato da Alessandro Bruni