Una nave con oltre 900 profughi che scappano dalla morte, cercando un porto sicuro dove sbarcare per rifarsi una vita. A bordo famiglie, anziani, quasi 400 tra donne e bambini. Quel che trovano per oltre 10 giorni in mare sono porti chiusi, ovunque.
Ogni paese interpellato dalle associazioni di soccorso respinge i quasi mille disperati perché, rivendicano gli Stati sovrani, sono già stati accolti “troppi immigrati, non c’è più posto”.
Non si tratta di una nave della Guardia costiera italiana che non ha il permesso di sbarcare, né di una Ong che ha salvato i naufraghi nelle acque libiche o maltesi e che vaga per il Mediterraneo cercando un approdo.
Correva l’anno 1939, i primi di maggio. La nave ‘Saint Louis’ salpò da Amburgo carica di ebrei tedeschi che scappavano per non finire nei campi di sterminio. Ognuno di loro aveva pagato centinaia di dollari per ottenere un biglietto e il visto per Cuba. La nave, infatti, era diretta all’Avana, l’isola caraibica che allora era sotto l’influenza americana: sono i tempi del generale Batista e del presidente Federico Bru’. Una volta venuto a conoscenza della partenza della ‘Saint Louis’ il governo cubano approvò per decreto una stretta sull’accoglienza dei profughi, prevedendo, tra le misure, un deposito cauzionale di 500 dollari per qualunque persona avesse voluto mettere piede all’Avana.
Le autorità cubane misero in atto una campagna contro i profughi in arrivo soffiando sulle tensioni occupazionali della popolazione: “Non c’è posto per loro, non possono venire qua a rubare il lavoro ai cubani. Cuba è stata lasciata sola dagli Stati Uniti e ha già accolto più profughi di quanti possa mantenere“. Questo era il tenore degli slogan che governo e agitatori di vario tipo facevano recapitare a radio e giornali, ma anche alle associazioni di soccorso ebraiche e al governo americano.
Giunta nel porto dell’Avana la nave venne fatta attraccare in rada e ai migranti venne proibito di sbarcare. La ‘Saint Louis’ fu tenuta ferma per 4 giorni, venne issata la bandiera gialla della quarantena (proprio come a Catania con la ‘Diciotti’) e i profughi furono lasciati soli mentre cominciò un lunga trattativa politica, basata su quanti soldi le associazioni americane ebraiche potevano garantire al regime cubano, negoziato che poi non portò a nulla.
Alla nave venne ordinato di fare ritorno ad Amburgo ma il coraggioso Capitano dell’imbarcazione, in stretto contatto con le agenzie umanitarie, cominciò a vagare nell’oceano cercando un porto sicuro che accogliesse le mille persone ormai a corto di viveri e medicine. Tutti i paesi dell’America Latina vennero sondati: nessuno accettò di ‘prendere’ mille ebrei.
E gli Stati Uniti? Il presidente Roosevelt fu irremovibile: mise subito in chiaro che non avrebbe accolto alcun profugo al di fuori delle quote di immigrati che spettavano all’America. Il coraggioso capitano della ‘Saint Louis’ si avvicinò al porto di Miami, però venne respinto dalla Marina a stelle e strisce.
Si provò con il Canada. Niente. Non rimaneva che tornare in Europa. Dopo trattative estenuanti la diplomazia – grazie anche a persone della famiglia Rothschild e al padre di John Fitzgerald Kennedy (Joseph, ambasciatore americano a Londra) – ebbe successo: i profughi vennero ‘redistribuiti’ tra Belgio, Olanda, Francia e Inghilterra che accettarono volontariamente di accoglierli. Una sorta di relocation ante litteram.
La stragrande maggioranza di loro qualche anno dopo finì ad Auschwitz dopo che la Germania nazista occupò tutta l’Europa occidentale.
scritto da Luca Monticelli, pubblicato in www.dire.it il 23 agosto 2018
segnalato da Alessandro Bruni e Francesco Monini