Occorre cambiare profondamente il sistema attuale e ribaltare il rapporto tra gli investimenti in nuove grandi opere – di cui dovrebbero sopravvivere alla verifica in corso soltanto quelle poche davvero utili - per reinvestire risorse adeguate nella manutenzione che significa anche prevenzione dai rischi e dalle catastrofi.
In Italia negli ultimi 20 anni si sono spesi oltre 170 miliardi di Euro per nuove opere (130 solo per la TAV); laddove per la manutenzione del più grande patrimonio infrastrutturale dell’occidente -stando al rapporto lunghezza delle reti/abitanti- si è investito meno del 10% di tale cifra. E’ in questo quadro che si inserisce il terribile disastro del ponte di Genova: un’opera che fin dal suo collaudo ed entrata in esercizio è stata oggetto di inchieste, polemiche, dibattiti e che proprio per questo doveva essere sottoposta a verifiche e manutenzione straordinaria continua.
Ma la finanziarizzazione anche del comparto infrastrutturale privilegia, rispetto a questo, i nuovi megaprogetti su cui convogliare grandi moli di risorse pubbliche e cementare blocchi di potere con grandi istituti finanziari: come ha già ricordato Paolo Berdini, la spesa unitaria per manutenzione è calata di recente da 7,2 a 2,2 euro per chilometro all’anno, un’inezia. E’ possibile che in questo quadro la “manutenzione straordinaria continua” del ponte Morandi si fosse ridotta ad attività routinaria, da svolgere come e quando consentito da coperture sempre più esigue. Stabiliranno i tecnici delle costruzioni quali elementi strutturali sono collassati per primi, trascinando gli altri, ma certo il bando per l’attività di ricostituzione e rigenerazione degli elementi portanti della pila e degli stralli che hanno ceduto, trascinando quasi per intero le due campate interessate, è arrivato solo qualche mese fa con anni di ritardo.
Il tentativo di rilanciare oggi il progetto della Gronda – al di là delle squallide strumentalizzazioni politiche e del coro mediatico annesso - non tiene conto di quanto è stato chiarito da tempo da parte degli esperti di programmazione infrastrutturale: questa nuova “Grande Opera” è pressoché inutile per le criticità del traffico genovese, ora esasperate dal disastro in questione, per ragioni spaziali e temporali.
Il progetto Gronda infatti interesserebbe solo gli spostamenti che provengono e si dirigono fuori Genova, meno del 20% del volume di traffico che passava sul viadotto. Dal punto di vista cronologico, se anche fosse definitivamente varato oggi, richiederebbe almeno 10/12 anni per l’entrata in esercizio: un tempo medio-lungo, contro i tempi forzatamente brevissimi della necessaria ricostruzione del ponte, anche con procedure straordinarie ma verificate.
Nei 170 miliardi spesi per le Grandi Opere, citati in apertura, sono comprese anche le spese per centinaia di opere bloccate, abbandonate o mai avviate (magari dopo costosissime progettazioni): la ragione di questo sfascio economico e ambientale non sta nell’attività di ambientalisti, comitati, sovrintendenze o burocrazia, come ancora urla un sistema politico, mediatico spesso subalterno se non direttamente controllato dagli interessi finanziari beneficiari di tale colossale spreco. Essa va ricercata principalmente nei meccanismi programmatico-normativi “straordinari” che spesso hanno contrassegnato il settore, massime la “criminogena” – secondo Raffaele Cantone - legge Obiettivo, abrogata ma ancora vigente per quasi tutte le opere in questione. Essa prevedeva infatti di cedere qualsiasi istanza decisionale di fase esecutiva al blocco “Concessionario-Contraente Generale” che – spesso prima di verificare la fattibilità stessa dell’opera in sede di progettazione di dettaglio - programmava ed effettuava spese a debito anche ingenti, anticipate ben volentieri da banche e finanziarie gratificate dall’entrare a far parte di queste ricche partite. Allorché l’attività di cantiere si bloccava, per criticità tecniche non previste da progettazioni sovente intenzionalmente inadeguate, venivano fermati anche i flussi di denaro; e in diversi casi con l’opera è fallita anche l’impresa.
Bisogna cambiare profondamente questo sistema e ribaltare il rapporto tra gli investimenti in nuove grandi opere – di cui dovrebbero sopravvivere alla verifica in corso soltanto quelle poche davvero utili - per reinvestire risorse adeguate nella manutenzione che significa anche prevenzione dai rischi e dalle catastrofi. Non solo delle infrastrutture, ma di tutto il costruito del Belpaese: oggi inorridiamo per un disastro infrastrutturale; ma non dimentichiamo le criticità sismiche e idrogeologiche, nonché i rischi ambientali di molti contesti nazionali.
Dov’è finito il programma “Casa Italia”, strombazzato da Renzi e il suo governo due anni fa? Qualche anno fa il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico, ndr) stimò in 180 miliardi di euro circa la cifra necessaria per la messa in sicurezza sismica, idrogeologica e da altri rischi del patrimonio urbanistico e territoriale nazionale: un programma ventennale. La prima e più urgente grande opera da pianificare e attuare veramente, al di là dei governi contingenti, è proprio questa.
scritto da Alberto Ziparo, pubblicato in Il Manifesto, 19 agosto 2018
segnalato da Francesco Monini
Alberto Ziparo, ingegnere e urbanista, docente di Pianificazione Urbanistica all’Università degli Studi di Firenze, è impegnato da anni nella critica al modello di sviluppo. Per conto dell’Istat ha condotto un dettagliato rapporto sull’entità del patrimonio immobiliare inutilizzato nel nostro paese.