Se Beethoven stringe la mano a Bob Marley
Come difendere identità e tradizioni senza rinunciare al nuovo e alle differenze
Un grande saggista racconta che cosa rappresenta oggi la cultura in Europa
Da qualche tempo, in Francia, alcuni degli intellettuali più brillanti ci hanno abituato a ricondurre ogni dibattito ad una scelta semplice e riconfortante: da una parte vita e pensiero, dall’altra le tradizioni ancestrali; da una parte Beethoven, dall’altra Bob Marley. Già un personaggio di Dostoevskij, nei Demoni, chiedeva di scegliere tra Shakespeare e un paio di stivali; nello stesso spirito, ci ingiungono ora di scegliere per il cosmopolitismo oppure per la fedeltà alla nostra identità culturale.
Al giorno d’oggi sembra che la seconda opzione attiri soltanto i regionalisti attardati (benché sempre pericolosi) e i rappresentanti degli estremismi: a destra, i nazionalisti; a sinistra, qualche sopravvissuto terzo-mondista. Il consenso della maggioranza, anche se implicito, è orientato a favore del cosmopolitismo. Non intendo, da parte mia, fornire una nuova risposta alla stessa domanda, ma piuttosto sostituirla con un’altra: è veramente necessario scegliere tra i due?
Da quando non gli si accolla più, automaticamente, alla maniera di Lenin, l’epiteto di “borghese”, la paroloa “cosmopolitismo” si utilizza, di solito, in due contesti. Si parla così di ambienti o di città cosmopolite, come Londra o Parigi, per evocare la presenza simultanea di numerosi stranieri di diversa provenienza. Questo fenomeno resta ben circoscritto nello spazio e non sembra destinato ad estendersi; si tratta, paradossalmente, di una particolarità culturale tra le tante.
Nell’altro significato, la parola “culturale” si accosta non più al concetto di “mescolanza” ma a quello di “universale”; in questo caso, sono giudicati cosmopoliti non alcuni fatti, ma un insieme di valori. Sarà allora Amnesty International, piuttosto che Parigi, l’esempio perfetto dello spirito cosmopolita, perché questa organizzazione combatte la tortura, le multinazionali e la pena di morte in ogni angolo del mondo. Nel far ciò, essa può (ma non necessariamente) trovarsi in opposizione con determinate caratteristiche di certe culture.
Possiamo infatti dire che la pena di morte fa parte della tradizione americana, così come la prigione politica fa parte di quella russa o l’escissione di quella di numerosi paesi africani islamici. Invece, chi parla di “valori universali” afferma anche che la differenza culturale non giustifica ogni cosa e si dichiara pronto ad esprimere un giudizio, non sulle culture nella loro interezza, bensì sulla validità di questa o quella pratica tradizionale.
Ma la cultura non è fatta solo di tradizioni e queste, del resto, non sono necessariamente aggressive nei confronti dell’individuo. La cultura è una pre-organizzazione del mondo, che ciascuno può apprendere e che ci permette di comunicare con gli altri membri del nostro stesso gruppo.
Sembrerebbe che, fino all’età di due anni, il bambino sia capace di assorbire indifferentemente ogni tipo di “cultura”. A partire da quel momento, si formano, per ognuno dei cinque sensi, associazioni stabili le quali indurranno l’individuo a preferire il sapore del riso rispetto a quello della manioca o, d’altra parte, a riconoscere come armoniosa una data combinazione di colori e di forme invece di tal’altra, o ad imparare il cinese piuttosto che il francese.
I membri delle differenti culture organizzeranno in modo diverso il tempo e lo spazio e, di conseguenza, interpreteranno in modo diverso il senso della propria esistenza. In tutto ciò, non dovranno scegliere tra il particolare e l’universale: le culture, come le lingue, sono sempre, di per sé, particolari.
E’ evidente che comunichiamo meglio con gli altri membri che appartengono alla nostra stessa cultura se possediamo una migliore padronanza dei codici. E’ sorprendente, invece, che la medesima padronanza permetta la creazione di opere che parlano agli estranei. Il fine ultimo dell’arte e del pensiero è quello di rivelare l’essere umano a se stesso; e constatiamo che, se un poco di tradizione rende le opere d’arte incomprensibili, molta tradizione le riavvicina a noi.
Mu-Chi era un monaco buddista, vissuto nel XII secolo nella Cina del Sud; non se ne era mai allontanato e non conosceva niente al di fuori della tradizione locale. Tuttavia i suoi disegni a inchiostro, i suoi cachi, le sue pastorelle e le sue oche selvatiche catturano ancor oggi lo sguardo di persone provenienti dai quattro angoli del globo.
Tadeusz Kantor si è a tal punto immerso nella sua natale Wielopole e nei suoi particolarissimi ricordi di infanzia che ha saputo rivolgersi agli spettatori del mondo intero. A partire da una certa profondità d’esplorazione, l’arte, come il pensiero, diventa universale; ma la strada più diretta che conduce a quel punto passa per la conoscenza del particolare.
Se veramente è così, se la forte identità culturale, lungi dall’ostacolare la strada all’universale (sto parlando in questo momento di opere d’arte, non di valori), ne è la via maestra, non vi è allora un rischio insito nell’accelerazione tipicamente moderna degli scambi tra culture, nella moltiplicazione dei contatti, nella sovrabbondanza di comunicazioni? Non andiamo forse verso una crescente uniformità, in cui la mescolanza generalizzata farà scomparire tanto i particolarismi che l’universale? Sarebbe assurdo negare l’esistenza di queste tendenze, ma possiamo chiederci se, cedendo ad un’illusione egocentrica, non siamo portati ad attribuire loro un’importanza sproporzionata.
Il fatto che sia sufficiente conoscere trecento parole d’inglese per essere capaci di domandare la strada in non importa quale parte del mondo, non mette davvero in pericolo la sopravvivenza delle lingue nazionali. Solo un patriarca d’estrema destra (il cineasta Autant-Lara, nello specifico) può seriamente credere che la Coca-Cola rappresenti una minaccia per la cultura francese; e non ci copriremo di ridicolo recriminando sul fatto che i moscoviti possano mangiare hamburgers con il pretesto che essi subiscono così l’alienazione culturale propagandata dai McDonald’s.
Ogni cultura è in contatto con tutte le altre (quelle che non lo sono state muoiono al primo incontro), ogni cultura è in continua trasformazione, come la nave “Argo”; e la vernice di uniformità internazionale non impedisce affatto alle singole culture di continuare a vivere.
Che ne è allora dell’identità culturale europea, annunciata da alcuni, segretamente temuta da altri? Mi domando se questa espressione non celi in fondo un malinteso. Quando eravamo bambini, in Bulgaria, desideravamo tutto ciò che era “europeo”, perché la qualità degli articoli importati era di gran lunga superiore a quella dei prodotti locali, che cadevano a pezzi in breve tempo; una volta cresciuti, veneravamo l’Europa perché essa incarnava ai nostri occhi, la democrazia e la libertà dell’individuo.
Ma gli europei ben sanno oggi che i prodotti importati dall’estero possono essere migliori di altri; e che i valori democratici hanno una valenza universale, anche se sono stati definiti per la prima volta in Europa occidentale. Tutto ciò non produce un’identità culturale. La cultura europea non esiste, sia perché non si contrappone a quella dei vicini ma comunica con essa attraverso impercettibili passaggi, sia perché essa è, al proprio interno, troppo diversificata, e tale resterà. Smettere di disprezzare i propri vicini è una buona cosa, ma non porta tuttavia alla somiglianza con loro.
L’identità culturale non si oppone né ai valori universali né ai contatti cosmopoliti; il pericolo non le viene dai charters a buon mercato né dai menu “internazionali” dei grandi alberghi. Viene dal processo di deculturazione che subiamo all’interno stesso della nostra società. La cultura muore quando la vita si trova ad essere frammentata tra una settimana di lavoro in cui conta soltanto l’intelligenza strumentale e l’efficacia, e alcune ore di svago durante le quali si consumano avidamente distrazioni.
La cultura muore quando la vita degli uomini si trova, per la forza dei mutamenti sociali, ad essere divisa dalle tradizioni un tempo trasmesse nell’ambito familiare, e quando essa stessa volta le spalle a una scuola la cui finalità è divenuta oscura; si hanno allora migliori possibilità di riuscita depredando i propri vicini e vendendo loro crack. Questo smarrimento non potrà essere definitivo , ma può durare a lungo,.
Abbiamo tutti bisogno di veder confermato il sentimento della nostra esistenza; il mezzo più facile per farlo è quello di riconoscersi in una identità collettiva. Per questo motivo sono felice di sentirmi miliziano serbo, o militante del Fis o tifoso dell’Olimpique di Marsiglia, e mi sgolo a gridare: Abbiamo vinto!. E’ inutile lamentarsi perché gli uomini sono quel che sono, ed è pericoloso dimenticare che il male non sta soltanto dalla parte degli altri. Ma avremo fatto un passo in avanti nella formazione del nostro spirito quando avremo rimpiazzato lo stupido orgoglio nazionale, o locale, con un’immersione nell’identità culturale. Soltanto che, purtroppo, questo lavoro è sempre da ricominciare: la cultura , come l’esperienza, non è né contagiosa né ereditaria.
scritto da Tzvetan Todorov, pubblicato in La Repubblica del 18 febbraio 1992
si veda anche sullo stesso autore Madrugada 66
segnalato da Alessandro Bruni