C’è uno strano fenomeno nella psicologia. Tutti ne parlano, i media sono zeppi di spiegazioni psicologiche dei diversi fatti pubblici e privati (dalla politica alla posta del cuore), ma poi il cittadino ha una ritrosia, se non sfiducia, nel lavoro dello psicologo. Non c'è modo di convincere l'amico di turno che ti chiede consigli sulla sua situazione di disagio a rivolgersi ad uno psicologo. La risposta più banale è “non sono mica matto”! Ovviamente dimostrando un abisso di ignoranza tra la professione di psichiatra e di psicologo. Peraltro, abisso ben frequente anche tra i medici i quali, tranne casi rarissimi, ben si guardano ad indirizzare un paziente in difficoltà verso lo studio di uno psicologo, preferendo sempre o la via farmacologica o l'indirizzo specialistico psichiatrico. È un fenomeno davvero strano. I medici ritengono la psicologia clinica una disciplina ancillare (alla stregua di scienze infermieristiche o di tecnico di sedia per i dentisti) e i pazienti la ritengono adatta a curare gli altri, ma non se stessi. Entrambi finiscono per ritenerla di fatto una disciplina non scientifica utile per chiacchiere da bar o su facebook.
È dunque la psicologia una disciplina senza riconoscimento, come un libro senza copertina?
Prendiamo un caso ricorrente in tema di accoglienza familiare di un figlio adottato o in affido. Quando la mamma si accorge di essere in difficoltà o di vedere nel figlio qualche comportamento strano subito pensa di rivolgersi ad uno psicologo e da lui si aspetta che “raddrizzi” il figlio. Ma se dopo le prime sedute lo psicologo dice che sarebbe meglio che lei si sottoponesse a terapia perché il disagio del figlio è probabilmente originato dal suo comportamento, ecco che scatta il fenomeno del disconoscimento del valore della psicologia (che appunto è buona solo per curare gli altri...!). La tappa successiva della mamma è, nella stragrande maggioranza dei casi, quella del medico di base che appunto risolve il problema con un blando intervento farmacologico (sul bambino, ovviamente), oppure le consiglia uno specialista in psichiatria (sempre per il bambino, ovviamente). Al medico neppure passa per la mente (diciamo molto spesso...) che la sua preparazione universitaria nel campo della psicologia evolutiva e familiare è stata del tutto sommaria. Quindi risolve per quello che sa (poco), determinando ulteriori problemi aggiuntivi.
A monte del fenomeno c’è un sentimento di fiducia non sempre giustificata sulle qualità protettive e riparatrici della medicina farmacologica. Fiducia sostenuta anche da un certo atteggiamento trionfalistico dei media, che descrivono la medicina come una straordinaria impresa in costante miglioramento, che ha come esclusivo obiettivo la salute delle persone, che tende verso una mirabolante progressiva specializzazione tecnologica, con farmaci sempre nuovi e migliori a disposizione. Permane nel pubblico e nel comportamento dei medici, un residuo di sciamanesimo che colloca medicina e medico a un livello intermedio tra una salute di origine divina e la malattia come espressione del peccato. Sia ben chiaro, mi guardo bene dal demonizzare medicina e medici, ma bisogna anche ammettere che il buon medico come la buona medicina deve rifuggire dall'autoreferenzialità e il medico deve essere uomo di scienza integro anche nel riconoscimento delle proprie derive comportamentali. Insomma anche il miglior chirurgo ha bisogno di uno psicologo attento che gli riduca l'auto-considerazione di onnipotenza per il fatto che salva le vite altrui.
La remora culturale di base è che in Italia la psicologia nasce culturalmente e accademicamente da una costola letteraria che non è mai stata veramente riconosciuta dall'apparato culturale di medicina. In altri Stati è diverso, medici e psicologi lavorano fianco a fianco rispettando le specifiche competenze. In Italia ci sono volute le malattie cronicizzanti (sclerosi multipla, SLA, Parkinson, Alzheimer, varie demenze senili) e l'oncologia per far comprendere la necessità di un lavoro comune verso il paziente. Si è così aperta una porta di comunicazione tra medicina e psicologia che però è mediaticamente giustificata non dalla comprensione di reciprocità professionale, ma dalla gravità sociale della patologia. Quando manca una patologia ritenuta mediaticamente rilevante cade la necessità di un lavoro comune e vige ancora il vecchio lascito culturale del binomio sciamanico medico-paziente contro il binomio letterario psicologo-lettino di Freud.
Dobbiamo ancora una volta sottolineare di vivere un periodo di transizione tra psicologia e medicina che ha lontane origini: l'inadeguatezza degli approcci parziali, che rappresenta innanzi tutto la crisi del conoscere e del saper conoscere, che si traduce in crisi dell'essere e del fare. In altre parole di crisi del sistema delle certezze e, più in generale, dei sistemi e dei costrutti di pensiero che stanno alla base delle istituzioni sociali. Come è proprio di ogni fase di transizione, tendiamo ad esprimerci e a condividere modelli e tensioni tra loro profondamente diverse, si assiste parallelamente a questa crisi di approcci parziali, ad una tendenza all'ipertrofia del particolare, ad una sorta di corsa frenetica verso un neomeccanicismo iperspecialistico che riduce la complessità dell'uomo ad una un'unica patologia dimenticando che di fatto anche solo con la vecchiaia siamo portatori di pluripatologie che necessitano di una comprensione olistica o ecologica nella centralità dell'uomo piuttosto che del suo spezzatino patologico come ci vogliono far credere certi medici e certi psicologi.
Se il confine tra medicina e psicologia è costituito dalla diade comportamento-patologia, si deve dire che oggi questo limite è assai lieve e cade in una terra di nessuno dove tutte le competenze sono necessarie. Basti pensare ad una donna con un tumore al seno (lo stesso vale per un uomo che ha subito la prostatectomia totale) che deve affrontare il confine tra vita e morte con la malattia, ma anche il confine della sua essenza femminile (o maschile) dovendo convivere con una mutilazione che non è solo assenza materiale dell'organo.
A ben vedere c'è ancora una forte necessità di fertilizzazione crociata (diremmo alla Panikkar) tra i saperi propri della medicina e quelli precipui della psicologia. E c'è bisogno soprattutto di uno scatto evolutivo-culturale del cittadino verso un minore schematismo riduttivo, per il proprio bene e per educare i medici al confronto e al lavoro di équipe in termini di salute. La medicina è oggi di fronte ad un bivio di necessità poiché è stato dimostrato che più di un terzo dell’assistenza medica è uno spreco e la maggior parte dell’assistenza non necessaria proviene dall’esagerato utilizzo di servizi (compresi i farmaci) che non migliorano gli esiti clinici. È dunque il tempo che, per approccio culturale e per necessità economica, si avvi una stagione di maggiore reciprocità professionale tra medicina e psicologia.
E la psicologia cosa deve fare? Direi subito uscire da un'aura comunicativa di ipertrofizzazione del banale. Ne ho la misura nel mio fb in cui ho allargato l'amicizia a psicologi: prevalgono le note di comunicazione narcisistica più banali e stereotipate con scarsi apporti personali e con citazioni e immagini altrui (prevale il passaparola mediatico piuttosto che lo studio delle fonti). Insomma una caduta di stile che non esprime un rigore di studi. Le competenze professionali si valutano sempre hic et nunc e non bastano la laurea ormai polverosa o le certificazioni di corsi di specializzazione curriculari in ameni luoghi di vacanza se poi il testo dei post è di una banalità sconcertante e le foto a corredo sono da cartolina o con citazioni ormai stantie dei padri della psicologia o da posta del cuore.
E' sorprendente come molti psicologi si affidino nella comunicazione professionale a immagini e citazioni dei padri della psicologia (prevalgono ovviamente Freud e Jung proposti sempre come santini votivi) e siano assenti i recenti ricercatori sia accademici e che professionali. Il massimo della contemporaneità sembra essere espresso dagli psicologi che popolano il mezzo televisivo dimenticando quelli che si dannano nella ricerca vera, nello studio e nell'esercizio professionale oscuro e rigoroso nelle riviste specializzate internazionali. Eppure l'università avrebbe dovuto educare allo studio delle fonti e non dei "traduttor de' traduttor d'Omero". Per fortuna il web è ricco di esempi, basta dedicare tempo e aggiornarsi non tanto con eventi da collezionare come figurine Panini, ma con ore di studio quotidiano (l'aggiornamento continuo è fondamentale nelle scienze del benessere e soprattutto è fondamentale per saper scegliere tra notizie scientifiche confermate da metanalisi e news giornalistiche d'effetto).
Chiudo questo post già amaro con un aneddoto altrettanto amaro. Vado a trovare per amicizia un vecchio psicoterapeuta prossimo alla pensione nella sua struttura di lavoro nel servizio pubblico. Ha uno studio con le pareti tappezzate di riviste aggiornate. Mi complimento per la ricca documentazione e lui mi dice: “Vede professore io ancora continuo ad aggiornarmi e aumentano i miei dubbi nella consapevolezza della complessità umana. I miei colleghi di dipartimento solo raramente mi hanno chiesto di consultare queste riviste. Non capisco come si possano permettere tutte le sicurezze che palesano”.
scritto da Alessandro Bruni