Primo Levi che dialoga con gli studenti della scuola media «Rosselli» di Torino, 24 maggio 1979
A Pesaro, fra gli Anni 80 e 90 del secolo scorso, accadeva che i ragazzi di tutte le scuole superiori si confrontassero a fine primavera con uno scrittore italiano contemporaneo: Sciascia, Rigoni Stern, Calvino, Volponi e vari altri. Nel 1985, in un teatro gremito all’inverosimile, toccò a Primo Levi, dopo che i ragazzi avevano studiato in classe i suoi libri. Fu l’ultimo dialogo pubblico dello scrittore con gli studenti. Ma la sua registrazione video si è conservata nel tempo e ci consente ora di riflettere su come Levi conducesse il suo «terzo mestiere»: oltre ad essere un chimico e uno scrittore, svolgeva infatti con grande cura il compito che si era dato sin dal 1960 di testimone itinerante nelle scuole di tutta Italia.
Lo riteneva un impegno inderogabile, anche se conosceva bene le difficoltà che comportava. Già nella risposta a una lettera inviata a «Specchio dei tempi» nel ’59 da una ragazzina, «figlia di un fascista», colpita dal silenzio dei suoi insegnanti sullo sterminio degli ebrei, aveva scritto: «Comprendiamo, ma non potremmo approvare, quei professori che “sospirano e dicono purtroppo” (…). La vergogna e il silenzio degli innocenti può mascherare il silenzio colpevole dei responsabili».
Risposte a caldo
L’autore di «Se questo è un uomo» non andava nelle classi a fare lezione. Preferiva presentarsi come un chimico che aveva attraversato un evento tragico della storia recente e si metteva a disposizione di chi volesse chiedergli qualcosa. Non si attribuiva alcun ruolo in particolare, tanto meno quello del professore o dello specialista di sterminio, e dunque accettava qualsiasi domanda i ragazzi gli rivolgessero come scrittore, testimone, intellettuale, ebreo, storico, uomo di scienza o persona fra tante. Lui rispondeva sempre, a caldo – prima dell’incontro di Pesaro evitò volutamente di leggere l’elenco dei quesiti che pure gli era stato offerto -, in modo pacato, conciso e per quanto possibile esauriente. Sentiva su di sé le proprie responsabilità di uomo adulto, messo di fronte ad altri uomini e donne più giovani di lui. Mostrava il proprio rispetto verso l’interlocutore, immedesimandosi nel suo punto di vista, suggerendo se necessario un’angolatura diversa da cui guardare alla questione e replicando in modo diretto e puntuale. Assumeva un tono rassicurante quando temeva che le emozioni provocassero fraintendimenti o bloccassero la comunicazione. Ma soprattutto ragionava e aiutava a ragionare chi aveva davanti, puntando sulla chiarezza, sul garbo e sull’ironia.
Un esempio
Per dare maggiore concretezza al discorso ecco un piccolo esempio fra i tanti, tratto appunto dall’incontro di Pesaro. La domanda – quel giorno furono più di trenta - era la seguente: «Nei suoi personaggi c’è sempre il viaggio, la ricerca di qualcosa, una patria, una fede. C’è alla base di questa concezione il senso della “erranza” ebraica?». Ed ecco la risposta: «Io non credo, non credo che se non avessi avuto nel mio itinerario terreno molti viaggi, avrei ceduto alla tentazione del viaggio nel mio scrivere. Il fatto della “erranza” ebraica lo conosco culturalmente, personalmente non l’ho sperimentato, perché io sono nato nella città in cui abito, anzi addirittura sono nato nella casa in cui abito, è un caso estremo di sedentarietà. I viaggi che ho fatto li ho fatti soprattutto perché mi sono stati imposti, non per scelta. D’altra parte io non credo che nel destino del popolo ebraico sia iscritto permanentemente questo destino, anche perché non credo ai destini, alla predestinazione. Personalmente, abbiamo detto prima, sono stato definito nella prima domanda come un razionalista, come tale non credo ad una predestinazione».
Frammenti di verità
Lo si è appena visto: Levi rispondeva in modo diretto; non esitava, se necessario, a manifestare il proprio disaccordo, proponendo però una precisa spiegazione; faceva riferimento, anche se con discrezione, ad aspetti della propria vita personale; non esitava a proporre le sue convinzioni: nel caso citato, sulla funzione cruciale della ragione, sull’importanza di distinguere fra conoscenza ed esperienza. Attraverso ogni sua risposta sollecitava i ragazzi a scoprire in concreto le mille strade utili a conquistare singoli frammenti di verità; non li trattava come contenitori di cui fosse eventualmente necessario sostituire il contenuto; e neppure come soggetti che dovessero essere resi consapevoli di verità già intimamente possedute. Chi aveva fatto la domanda doveva essere messo nella condizione – dopo la risposta - di confrontare il se stesso di ora con quello che era stato prima, di dubitare in quel modo delle proprie convinzioni di partenza. L’obiettivo era chiaro: con il dialogo, aiutare gli interlocutori a dialogare con se stessi.
Clima di curiosità
E questo valeva per i singoli che rivolgevano la loro domanda, come per tutti gli altri che ascoltavano. La naturalezza con cui Levi porgeva le sue risposte contribuiva a creare un clima di curiosità, di attenzione e di coinvolgimento. Anche chi non aveva formulato direttamente un proprio quesito era incoraggiato a condividere quelli degli altri e a partecipare, dal proprio punto di vista, agli sviluppi della discussione.
scritto da Fabio Levi, pubblicato in La Stampa del 24 Ottobre 2018
segnalato da Alessandro Bruni