Più di qualcuno mi dice: "ma perché la fai tanto complicata. Da che mondo è mondo ci sono sempre stati i genitori e il volersi addentrare in ragionamenti sul come e sul perché fare i genitori finisce col determinare una sovrastruttura che limita la spontaneità e la creatività che ogni genitore ha in sé. E' come voler imbrigliare l'acqua e non lasciarla fluire, è come voler mettere a norma l'amore che spontaneamente nasce da ogni genitore."
Vedo di dare una risposta in coerenza con quel che penso, senza eccedere in luoghi comuni sulla necessità del sapere prima del fare. Sul piano psicologico avere un figlio significa innovare e innovarsi. Non solo per determinare futuri uomini, questo era valido e primario nel passato, ma per dare un segno di innovazione alla propria vita.
- Prima obiezione: e quelli che decidono di non avere figli? Risposta: avere figli non è obbligatorio, basta essere capaci di mettere nella vita di coppia gli elementi fondanti della continua crescita comune. L'avere un figlio è solo la via più comune per l'innovazione interiore, ma non è la sola. Se una coppia decide di non averne deve essere sicura di poter contare su un motore interno a cui non mancherà mai la benzina. Tutto qui.
- Seconda obiezione: perché dici che i genitori devono essere preparati e strutturati? Risposta: se una coppia è fortemente strutturata e preparata più facilmente sarà creativa. Di questo punto, a mio avviso fondamentale, cerco a seguire di dare una spiegazione dettagliata.
Mi rifaccio nientemeno che agli studi di Fritz Zwicky ( www.zwichy-stiftung.ch ) che si era posto la seguente domanda:
Innovare non significa semplicemente realizzare qualcosa di completamente nuovo, ma anche combinare l'esistente in altro modo, inventando così qualcosa che prima non c'era. Ma come si fa?
Primo caso. Abbiamo un figlio biologico. E' diremo un essere nuovo, ma il suo aspetto è subito messo in relazione con le somiglianze (somiglia al papà, ha gli occhi della mamma, ecc.). Questo processo determina in effetti una strutturazione morfologica del nuovo venuto che prepara agli eventi successivi di quanto crescerà (ha il carattere di tua madre, è svogliato come tuo fratello, ecc.). Insomma il bambino "nuovo" in effetti non lo è, anzi si porta già dai primi giorni un fardello di somiglianze "parentali" nel bene e nel male che talora ne possono persino condizionare l'avvenire. In altri termini il bambino è già "strutturato" in un delicato resoconto di affetti che lo fanno appartenere ad una struttura familiare.
La struttura del sistema fa si che nessuno dice al padre che suo figlio assomiglia al fornaio! (anche se magari è proprio figlio del fornaio!). Questa battuta suona solo scortese, magari la si pensa, non la si dice, ma è creativa (intellettualmente, perché è creata da un collegamento fuori dagli schemi consueti). Tuttavia, non appartenendo alla struttura sociale riconosciuta, si traduce in altro modo (socialmente corretto) in un gioco creativo dei parenti che individuano nel nato caratteri di lontani e improbabili zii. Essi agiscono nell'ambito della struttura esercitando un processo di fantasia che è altrettanto irreale quanto quello della battuta sul fornaio.
Secondo caso. Abbiamo un figlio adottivo o affidatario. E' un figlio più "nuovo" di quello biologico ( e qui parrebbe quasi logico dire assomiglia al fornaio, perché la possibilità c'è ed è socialmente accettabile nel processo di accoglienza). Tutti i parenti sanno che non possono fare riferimenti morfologici o di carattere a zii o a trisavoli. Generalmente rimangono spiazzati e devono attingere dalla fantasia per fare anche solo un apprezzamento di cortesia. Non solo. Anche i genitori non possono, tra il serio e il faceto, attribuire suoi comportamenti ai parenti del partner! Tra loro ed il figlio non vi è alcuna relazione pregressa, né alcuna struttura che non sia quella dell'amore che nutrono verso di lui. E' un vero amore puro non strutturato da elementi passivi morfologici o caratteriali che si alimenta con la loro personale capacità di essere creativi in termini affettivi:
- Hanno di fronte una pagina bianca e la devono strutturare segnando le righe lungo le quali devono scrivere la loro personale storia.
- Hanno di fronte un bimbo di cui conoscono poco, di cui devono capire molto, che susciterà in loro sentimenti e comportamenti non sempre ripetitivi (anzi sempre creativi).
- Devono essere creativi verso di lui e verso se stessi perché sia la relazione di coppia sia la relazione genitoriale deve essere inventata partendo da dati di inconscio vissuto o di formazione personale e sociale differenti da quelli del bambino.
Si trovano nella condizione di essere su un tappeto con il bambino e di avere mattoni di lego. Il bambino li unisce apparentemente a caso, voi invece secondo una struttura mentale (un fiore, una casa, un ponte, un auto, ecc.). Se dite al bambino di costruire un ponte è necessario che il bambino sappia come è fatto un ponte, ovviamente. Se il bambino vi chiedesse di costruire l'amore sareste in difficoltà e finireste per comporre una immagine traslata (un fiore, un cuore, ecc.), ma se voi chiedete al bambino di costruire l'amore non ha difficoltà e magari reagisce strofinandosi sul vostro braccio o semplicemente dandovi un mattoncino di lego (gesto ancipite nel senso che potrebbe dire "fallo tu", oppure di dono emblematico: morale lui è il vero creativo perché mentre noi siamo generalmente destrutturati in termini affettivi [abbiamo bisogno di una immagine traslata], lui crea e sa bene cosa vuole e cosa prova).
Concludendo per essere creativi come genitori bisogna prima essere preparati e strutturati. Questo è valido soprattutto per i genitori accoglienti (ma anche per gli altri), non solo perché crescere figli altrui è comunque un'impresa fuori dall'ordinario nella nostra società, ma perché mentalmente noi stessi dobbiamo mettere al lavoro aree mentali e psicologiche inesplorate ed affatto consuete. E qui mi appoggio per la vera creatività a Arthur Schopenhauer: il compito non è vedere quanto nessuno ha visto ancora, ma pensare quello che ancora nessuno ha pensato su ciò che tutti vedono.
scritto da Alessandro Bruni