Non so se la serie TV sarà all’altezza del libri di Elena Ferrante, né quale sia il valore di questa misteriosa scrittrice. So che molte persone attorno a me, che avverto come “accese”, hanno apprezzato entrambi i prodotti culturali. E che altre, pure intelligenti, li rifiutano, forse perché, affetti da una qualche sindrome “fofica", allontanano da sé tutto ciò che divenga mainstream.
So anche che Saverio Costanzo non fa le cose pressapoco, e anche solo qualche fotogramma de “L’amica geniale" restituisce l'atmosfera di tempi da me non vissuti ma ritrovati in tanti racconti e romanzi. Un'Italia zoppicante e seminuda, che non viveva solo a Napoli, ma anche nelle Langhe di Fenoglio, nel vicentino di Meneghello, nell'Appennino di Guccini, nella Lucania di Levi.
Ho voluto far vedere in classe, in due quarte, qualche frame del secondo episodio ("I soldi"), in particolare quando entrambe le bimbe affrontano in famiglia la discussione sul loro desiderio di proseguire la scuola. Sei sette minuti intensissimi, nei quali i volti immobili e pieni di vita delle due splendide attrici raccontano il dramma della miseria e del lavoro, dell'essere figlie femmine in un paese lontano dal realizzare l'uguaglianza sostanziale scritta nella Costituzione.
Chi sa che speravo. Che i ragazzi padovani aprissero gli occhi sul loro privilegio di studenti del XXI secolo? Che smettessero di lamentarsi per qualche capitolo di storia o scienze? Che iniziassero a divorare ogni spunto che diamo loro? Che guardassero con occhi nuovi all'enorme potenziale conoscitivo costituito dalla connessione internet che si portano in tasca? Che sapessero che la loro è un'età geniale, da gettare in faccia alla rassegnazione degli adulti?
Non hanno fatto commenti, e i brevissimi lazzi sul napoletano parlato nello schermo sono scemati in pochi secondi. Qualcosa dunque si è acceso, come sempre. Forse, con la mia proposta, ho portato loro solo la tristezza e la speranza che giacciono in ogni relazione familiare, come se davvero l'essenziale sia sempre il "come stiamo" e il "come potremmo meglio stare”; come se l'attenzione più vivida debba essere quella da loro impegnata a decifrare il giudizio che, anche non volendo, lascio cadere sulle loro teste.
scritto da Giovanni Realdi