La responsabilità dell'insegnante non è un ingranaggio isolato, personale, ma un ruotismo epicicloidale capace di mettere in movimento le coscienze più remote dagli alunni alla famiglia, alla società.
Questa Lettera a un insegnante è stata molto criticata da quando è stata scritta sia per il tono retorico, sia per il contenuto. A chi fa scuola tutti i giorni può anche sembrare inutile o banale, ma al di là dei mutamenti del concetto di scuola come luogo di formazione personale, più che di apprendimento di saperi, rimane non solo un sapore di antico, ma anche un sapore di presente di difficoltà a saper proiettare il futuro, di ancora luogo di sopportazione e di tolleranza o di intolleranza da parte di studenti e di insegnanti. Quasi che la scuola sia una sorta di fastidio sociale (espresso da molti politici sottovoce in privato, gridando la sua grande importanza in pubblico). La ripubblico qui sul blog non perché costituisca un caposaldo della formazione, ma una scheggia di quel che tanto avremmo voluto essere come insegnanti e non siamo riusciti a fare, mescolandoci al ruolo dei genitori, degli psicologi, dei sociologi, dei pregiudizi, della liturgia inutile, della autoritarismo, della partecipazione passiva o assente, di un piacere ad insegnare che, se mai c'è stato, ora è spento, della capacità di comunicare ridotta alla mera lettura del libro di testo. È questo cinico pessimismo? Ma no, ovviamente, perché sono molti che perseverano nella vera costruzione educativa degli alunni. Ma allora questo per chi è? È per quegli insegnanti che si sono persi in un labirinto di distinguo in una penombra di nascondimento che fuga ogni velleità, ogni speranza. Ce né per tutti dalle scuole primarie all'università, ma solo per quegli insegnanti che sanno leggere e ascoltare. E non mi si dica che insegnare è una vocazione e chi non ce l'ha non se la può dare! Più che vocazione si deve parlare di responsabilità e chi non l'ha sarebbe giusto cambiasse mestiere, per se stesso e per gli alunni. Può un irresponsabile insegnare la responsabilità?
scritto da Alessandro Bruni
Lettera a un insegnante di Vittorino Andreoli
E ora ti voglio parlare in questa mia lettera delle doti che fanno di te un buon insegnante e delle strategie perché tu possa espletare il tuo compito pienamente.
Credo che la prima qualità sia l'autorevolezza. Viene percepita come caratteristica della persona ed è certo l'insieme di molti elementi. L'autorevolezza dà credibilità: ti rende punto di riferimento e le tue affermazioni assumono il significato di «verità». I tuoi allievi se ne accorgono e ne sono certi: di fronte a un mondo di menzogne, improvvisazioni, maschere per «apparire», vedono in te la serietà. L'autorevolezza diventa sicurezza. Non è riducibile a quanto si sa sulla materia, ma fa riferimento a una personalità che si presenta convinta e convincente, coerente, capace di svolgere il proprio ruolo e di manifestarlo anche nel silenzio, con la sola presenza. E persino nell'assenza, poiché l'insegnante viene introiettato e c'è anche quando non c'è e si può giungere a una presenza che dura una vita. L'autorevolezza non è mai autoritarismo, che si veste della violenza e della minaccia del potere.
La qualità che segue subito dopo è la partecipazione alla scuola. Una presenza attiva, animata dalla voglia di dare, di fare sempre meglio senza mai chiudersi in una recita fredda, seguendo uno stanco copione che si ripete da anni. La si misura con il desiderio di andare a scuola, di entrare nell'aula o all'opposto con la paura persino di salire sulla cattedra. La partecipazione è condizionata dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire e far percepire qualsiasi argomento in maniera accattivante, interessante e aggiornata, dunque in una versione sempre nuova poiché nulla nelle discipline insegnate rimane immutato e l'insegnante deve coglierne le novità. Ma c'è una partecipazione che riguarda l'affettività e che esprime la voglia di trasmettere quello che uno sa e che ha raggiunto in tanti anni di approfondimenti. Un sapere che si coniuga con la passione o almeno con il piacere.
Il piacere di insegnare, ecco un altro punto su cui interrogarsi: riesci a dare un senso alla tua vita proprio per il tuo ruolo, per il fatto di proporti ai tuoi allievi come insegnante e con un sapere specifico che però trasmette al tempo stesso la gioia di quella scelta? Oppure hai quell'aria assente che ti porta faticosamente a compiere un dovere che è però scialbo e senza piacere? Come fossi diventato frigido o frigida, come se ormai il piacere dei sensi fosse pura illusione o ricordo di momenti meno sfortunati. Sei un rassegnato? Nessun lavoro, senza il gusto di compierlo, può risultare gratificante e dunque efficace. Vale quindi il principio che il piacere con cui svolgi il tuo ruolo di insegnante è proporzionato alla sua efficacia e quindi al gradimento della classe che lo dimostrerà stando attenta e appassionandosi alla tua materia poiché vi sente dentro la tua personalità. Altrimenti il tuo competitore diventerà il computer che è disanimato, mentre tu l'anima ce l'hai: è la caratteristica che differenzierà sempre l'uomo dalle macchine.
Una qualità importante si lega alla tecnica della comunicazione e quindi all'efficacia del messaggio che la lezione trasmette. Il tuo racconto, la tua lezione devono avere la forza di una favola per un bambino che, ascoltandola, la partecipa, entra nel personaggio, anzi alternativamente in tutti e così non solo capisce la struttura della fiaba, ma anche le sue parti e le vive e, se le vive, riesce a farle proprie, ad apprendere. Non devi poi dimenticare che ogni ruolo ha una propria liturgia che va mantenuta e non è concesso a un insegnante diventare amico dei suoi allievi o esercitare un'azione di volontariato. Il tuo ruolo è sacro e non intendo assolutamente parlare di missione, che non c'entra nulla, ma mi riferisco alla sacralità come svolgimento di una cerimonia che è certo fondata su un sapere razionale, ma anche su qualche cosa di strano, di fascinoso, persino di misterioso, poiché il mistero rimane dentro il pensiero umano. Tu non sei il padre dei tuoi allievi, non l'amico, non lo psicologo che assiste ai drammi della crescita. Sei un uomo o una donna con l'incarico di allevare un gruppo di persone, di fare il direttore d'orchestra e devi indossare, anche materialmente, un abito che sappia di cerimonia, che si adegui alla tua parte.
Questa società ha creduto di demolire ogni formalità e non si è accorta che non cancellava semplici decorazioni bensì la sacralità della vita. E la scuola non può essere banalizzata come se fosse un luogo di intrattenimento per giovani, un pub o un club di amici.
tratto da “Lettera a un insegnante” di Vittorino Andreoli, Rizzoli. 2007