«Politica e giustizia non nacquero sorelle». La nota frase del penalista liberale Francesco Carrara – dal 1859 docente di diritto penale nella prestigiosa cattedra di Pisa – era un profilo della complessa riflessione della dottrina sul delitto politico, più nobile del comune, in una eco che dai Martiri di Belfiore del Risorgimento giungeva ad un altro Cesare Battisti.
La rappresentazione era condivisa da Cesare Lombroso, Enrico Ferri ed altri epigoni del positivismo criminologico, attenti però – come peraltro i ‘classici’ – a mettere in guardia legislatori e giudici da chi ammantava di politicità biechi omicidi e rapine per usufruire di grazie e frequenti amnistie, delinquente ancor più pericoloso del comune.
Tra Otto e Novecento il diritto penale politico è stato segnato da questo campo di tensione, dal liberalismo del codice Zanardelli alla reintroduzione della pena di morte per gli attentati politici nelle leggi speciali del 1926. D’altro canto anche la lezione ‘foucaultiana’ non esime dal considerare in che misura il dissenso politico e sociale abbia via via messo in crisi la tenuta dello Stato di diritto, nella «perenne emergenza», che ha interrogato anche l’Italia repubblicana alle prese con il terrorismo.
Il diritto penale politico è stato insomma banco di prova di diverse ‘ideologie’, che potremmo definire del penale come garanzia e del penale come sicurezza. Quest’ultima vocazione è da tempo un profilo del «populismo penale», del «penale elettorale», che oggi soffia forte nelle retoriche del governo gialloverde; un esempio le proposte in tema di legittima difesa, che fanno misurare la distanza con lo ‘spirito’ della Costituzione ed il rigore tecnico del ‘poco ideologico’ codice Rocco.
Quanto al Cesare Battisti che dagli anni di piombo approda a Ciampino nel 2019, la cifra politica dei delitti per i quali è stato condannato è speculare nelle narrazioni del ministro degli Interni – l’assassino comunista – e nell’autorappresentazione del detenuto fuggito nel 1981 dal carcere, dove il delinquente comune – pare – ‘prendeva coscienza politica’ e diveniva delinquente politico, terrorista che non perdeva l’‘aura di nobiltà’.
L’‘eredità garantista’ del penale liberale – in Francia ‘codificata’ da Guizot nel primo Ottocento – ha fatto sì che il condannato in contumacia a due ergastoli per delitti comuni abbia usufruito della cosiddetta dottrina Mitterand, nella lunga durata della meritoria protezione dei fuoriusciti dall’Italia fascista, nell’improponibile (e insopportabile) paragone, condiviso peraltro da taluni intellettuali francesi. In seguito il presidente brasiliano Lula, più discusso di quello socialista francese, pareva seguire questa impostazione; il nuovo, recente vincitore alle elezioni, da populista si è impegnato, in sintonia politica con il governo italiano, ad offrire all’Italia il «piccolo regalo», pure arrestato in Bolivia.
Dopo 37 anni Battisti è tornato in patria con aereo militare, accolto in aeroporto dal ministro degli interni, nella consueta divisa da poliziotto, nella consapevolezza che certe parate di regime hanno un’indubbia efficacia propagandistica.
Il discorso pubblico pare lontano dalle ‘grandi fondazioni del penale moderno’, con i rilievi sul mancato pentimento di Battisti, l’auspicio – e ci mancherebbe altro – ad assicurare alla giustizia, e non alla vendetta, altri delinquenti, politici e comuni.
Torna un’altra eco delle retoriche dei tempi lontani, l’invito a far marcire nelle patrie galere – circola nel lessico politico l’espressione costituzionalmente orientata – oltre ai terroristi ‘rossi’, quelli ‘neri’; la strumentalizzazione del dolore delle vittime e dei loro familiari è tra gli aspetti più tristi della vicenda, che si chiude (?) con l’odio speculare del catturato e di chi fa vanto della cattura.
L’odierna iurisdictio in nome delle vittime perde il senso ‘comunitario’ di quella del Medioevo ed oltre, la ricomposizione della Comunità in virtù del superamento della vendetta, oggi protagonista non solo nel discorso sulla giustizia. Ci si interroga dunque sulla compatibilità di certe pratiche e retoriche governative con lo Stato di diritto; si misura la distanza dallo ‘spirito’ del penale costituzionale e dall’‘antico’ garantismo liberale, «quando la politica entra nel tempio della giustizia, questa fugge impaurita dalla finestra»[1]; L’Italia del 2019 ne è banco di prova.
[1] Francesco Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Lucca 1860.
scritto da Floriana Colao dell'Università di Siena, pubblicato in Studi sulla questione criminale del 14 gennaio 2019
segnalato da Donatella Ianelli
sul tema si veda anche l'Opinione di Vincenzo Scalia dell'Università di Winchester e L'Opinione di Susanna Marietti di Antigone