In un periodo in cui le differenze culturali si tramutano in barriere, in odio e violenza, torniamo ad interrogarci sulla scuola come luogo di uguaglianza e di opportunità.
Che ruolo deve ritagliarsi oggi la scuola per lottare contro valori superficiali? E cos'hanno in comune scuole lontane, con alunni tanto diversi? Come valorizzare queste diversità senza moltiplicarle?
Tre sono i "luoghi comuni" da non dimenticare:
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La scuola è aperta a tutti.
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I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
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La scuola è il luogo delle opportunità per tutti.
La scuola come luogo delle opportunità per tutti, è il "comune" del luogo scuola. Qui l'opportunità non è solo il raggiungimento di competenze ai fini lavorativi, ma il raggiungimento della propria personale felicità. Se questo è valido per l'alunno che ha un futuro da costruire, lo deve essere anche per gli adulti di riferimento (genitori e insegnanti). Può un adulto frustrato ed infelice insegnare la felicità ad un figlio o a un alunno?
La scuola deve essere, dunque, prima di tutto luogo di opportunità personali. Non è poco, è tantissimo ma se non è questo, la scuola è inutile e a volte dannosa. Sì, perché se la scuola è conferma delle disuguaglianze d'origine o moltiplicatore di disuguaglianze, è davvero un inutile parcheggio in attesa che la vita di fatto selezioni i più adatti alla competizione dell'odio e della violenza.
Certo è che non va abbandonata da parte degli adulti, genitori e insegnanti, l'idea che la scuola deve essere essere palestra per educare ad essere più felici, più vivi e più umani perché se la scuola è crogiolo di odio e violenza diviene luogo di infelicità personale per alunni e insegnanti.
Il fatto. La prima media è una classe molto assortita: 21 ragazzi provenienti da scuole differenti, di differente cultura familiare ed etnica e di differente condizione socio-economica. Molti di loro hanno situazioni familiari di larvato disagio, quattro di loro sono in famiglie accoglienti. Alcuni sono molto timidi e impauriti, altri già dal primo giorno arroganti e sprezzanti verso la scuola.
Dopo i primi richiami da parte degli insegnanti sul comportamento indisciplinato in classe, la maggioranza dei genitori è pronta alla rivolta: “sono gli insegnanti a dover tenere la disciplina perché noi non abbiamo problemi a casa dato che con le punizioni sappiamo come tenerli al loro posto”. Una mamma al colloquio dice all'insegnante che si deve abituare a prendere a “calci in culo” il suo ragazzino perché altrimenti non impara (sic!....).
Alle assemblee dei genitori sono presenti in pochissimi e generalmente per lamentarsi degli insegnanti, criticando il modo di insegnamento, gli argomenti che sviluppano; si mostrano critici sul loro operato: “l'ho detto anche a mio figlio che tanto gli insegnanti sono degli sfaticati, mica come me che devo lavorare tutti i giorni”.
Tra i ragazzi nascono conflitti continui, ma con il tempo imparano a trovare un loro equilibrio, anche se gli scolari più turbolenti finiscono col divenire un modello, negativo per pochi, e positivo per molti. L'occasione di una festa di compleanno svolta fuori dalla scuola, e sotto la responsabilità di alcuni genitori, si trasforma in una rissa per motivi di supremazia tra maschietti in cui anche le femmine sono coinvolte. Si danno spinte, si offendono con le tante parole sentite dagli adulti (un repertorio noto).
Due ragazzine si distinguono come fomentatrici in un concentrato di violenza verbale distinguendosi per essere costantemente causa diretta o indiretta di scontro tra i ragazzi. I ragazzi, pur divisi tra loro, finiscono col dirigere verso queste ragazzine gli insulti e arrivano a spinte e sgambetti.
Il giorno dopo le madri delle due ragazzine vanno all'uscita dalla scuola per fare una spedizione “punitiva” contro i ragazzini rei di aver offeso le loro figlie, quasi li malmenano e li apostrofano con gli epiteti più volgari riguardo alle loro madri e ai loro padri e come se non bastasse rivolgono loro frasi razziste sulla loro etnia e sul colore della loro pelle (erano appunto i giorni in cui a scuola si commemorava il ricordo dell'olocausto........), sul fatto di essere figli di nessuno abbandonati alla carità degli altri.
Il giorno seguente ancora, in classe scoppia tra i ragazzi la raccolta di firme per sapere chi è contro le due ragazzine. Si formano due gruppi: chi le vuole punire e chi non lo vuole. Chi non vuole essere messo in mezzo viene vessato da entrambi i gruppi che esercitano pressioni anche violente per far aderire gli incerti al loro gruppo. La classe è tutta coinvolta e i ragazzi parlano tra loro dell'accaduto discutendo a seconda del loro temperamento per valutare cosa è giusto e cosa non è giusto in un dibattito fitto di espressioni forti, ma anche di passione per il momento collettivo che stanno vivendo. I più violenti mimano le situazioni viste in un film proiettato a scuola.
Il commento. Il crogiolo emotivo della classe già in partenza era colmo di grandi differenze che andavano valorizzate e non stigmatizzate. Alcune situazioni non sono state bene comprese e organizzate. Appare fondamentale il pessimo rapporto tra genitori ed insegnanti e conseguentemente il pessimo rapporto tra ragazzi e insegnanti.
La classe è luogo di continuo scontro tra alcuni ragazzi e gli insegnanti. Comunque la scuola rimane un “luogo” dove seppur con difficoltà si ha un riconoscimento di appartenenza da parte dei ragazzi. La festa rappresenta un “non luogo” dove non vi è appartenenza e quindi è foriera dello scatenamento di situazioni profonde di vissuto non scolastico. Il comportamento sostanzialmente di conflittualità delle ragazzine viene sottolineato e stigmatizzato dal comportamento delle loro madri che dicono “sappiamo come difendere le nostre figlie e non come quei froci dei genitori delle altre”.
Appare chiaro che alcune occasioni di riflessione collettiva (i giorni del ricordo da un lato e dall'altro la proiezione di un film, violento per sua espressione artistica) non sono state ben calibrate nella gestione della formazione emotiva della classe.
Significativo è anche il passaggio da un fatto occasionale e spontaneo (i ragazzi che manifestano la loro disapprovazione verso le ragazzine) al fatto “organizzato” (la raccolta di firme per la costituzione di gruppi pro e contro) fa capire come l'escalation passi da una fase emotiva individuale ad una razionale fattiva collettiva.
Chiaramente in queste condizioni è la scuola che deve reagire come istituzione verso i ragazzi e verso i genitori. Tuttavia gli stessi genitori sono poco propensi ad usare le istituzioni preferendo soluzioni personali. La maggioranza dei genitori, per motivi opposti, vuole spostare i figli in altra classe. Seppure emotivamente comprensibile, è una soluzione tendenzialmente sbagliata perché impedisce ai figli di imparare a governare situazioni complesse, dove si devono esercitare la capacità di giudizio, la capacità di scelta, la capacità di governare le proprie emozioni e la capacità di trovare delle soluzioni.
Sarebbe bene in queste occasioni essere vicini ulteriormente ai propri figli per guidarli e consigliarli senza esserne coinvolti in espressioni negative di rifiuto del sistema scuola (questo accentua la formazione di una cultura emotiva negativa a prescindere dalle istituzioni). Insegnare a fuggire non è mai una buona cosa a meno che non si instauri nel figlio un disagio cronico di disadattamento e di violenza coercitiva (in questo caso ne va della salute psichica e conseguentemente lo spostamento non è fuga, ma “terapia”), ma questo per ora, sebbene la situazione sia assai critica, non si è verificato nella classe.
Nell'esperienza descritta si vede come i genitori autoritari perdono facilmente la pazienza di fronte alle incapacità scolastiche del figlio o di fronte alle situazioni collettive quando alzano in modo improprio il livello di protezione. Non solo, finiscono con l'alzare impropriamente i toni sottolineando in modo negativo le differenze tra i loro figli e quelli degli altri. In questo modo finiscono con allevare i figli nel disprezzo delle differenze creando i presupposti di una relazione corrosiva che forma figli ipercritici, intolleranti, talora aggressivi, che manifestano i segni di un pronunciato disagio socio-affettivo. E gli insegnanti? Sebbene siano numericamente pochi i frustrati che non colgono il segno della loro responsabilità educativa, sono ancora troppi, soprattutto per i danni che il loro comportamento di indifferenza e disimpegno determina.
scritto da Alessandro Bruni, pubblicato in “Manuale per famiglie controcorrente”, Edizioni Psiconline