La sindrome di Burden, nota anche come sindrome del caregiver, è una patologia poco conosciuta, che tende pertanto a passare spesso inosservata da parte dei diretti interessati e di chi sta loro vicino. I caregiver si trovano a dover sopportare un peso psicologico troppo grande e in modo continuativo. Differisce dalla sindrome da burnout, che colpisce gli operatori socio-sanitari, ovvero a un'esplosione e ad un esaurimento delle proprie risorse in ambito professionale. I caregiver famigliari vivono, invece, una situazione totalizzante di lento logoramento che porta la persona a una forte alienazione dalla società circostante, finendo per vivere solo in funzione del familiare malato.
I segnali da rilevare sono uno stato d’ansia spesso collegato a insonnia e una diminuzione delle difese immunitarie che porta a un calo della salute del caregiver, con il manifestarsi di disturbi di vario grado, che spesso vengono sottostimati proprio per continuare a occuparsi del proprio caro. Il caregiver pensa insomma che si tratta solo di un momento di stanchezza passeggero, mentre invece può trattarsi del segnale con cui l’organismo sta lanciando il primo allarme per un ben più serio disagio psicologico. Deve imparare ad osservarsi e usare la cassetta di strumenti che già usa nel suo lavoro verso gli altri. Deve valutare se ha improvvise crisi di pianto, insonnia, affaticabilità, tristezza che, alla lunga, comportamo maggiori rischi per la salute.
L'origine di questi comportamenti nasce dallo stesso compito psicologico di assistenza del caregiver, specie se è un famigliare, nell’assistere il familiare: deve trovare un equilibrio fra il senso del dovere, senza rimanerne schiacciato, la rabbia, riconosciuta in tutta la sua umanità di doversi prodigare per valore morale verso il benessere dell’altro, di un parente, di un figlio, di un padre e di una madre.
È cruciale per il caregiver, che vuole mantenere un equilibrio tra se stesso e gli altri, sviluppare una dimensione di socialità extra lavoro una relazione con altri che non sia di assistenza, un vivere una dimensione di sano egoismo verso se stessi, di favorire una compensazione ricordando che, come sempre in campo psicologico, è la relazione che cura e rende resilienti e allontana l'alienazione che consegue alla sua dedizione a tempo pieno.
Quando questo non basta, e spesso non basta, non si deve essere riluttanti a chiedere un supporto psicologico per essere aiutati a divenire coscienti della necessità di ritagliarsi degli spazi di evasione, spezzando la simbiosi instauratasi con il familiare o il paziente assistito. In questi casi l’obiettivo terapeutico è quello di condurre una sorta di rieducazione del caregiver per modificarne lo stile di vita e metterlo nelle condizioni di non sviluppare più disturbi legati a una forma di palese alienazione autodistruttiva. Solo nei casi più problematici può infine essere necessario il ricorso a una terapia farmacologica per agire sugli stati d'ansia.
Paola Arcadi in "Una medicina per la solitudine" pubblicato in Pensiero scientifico bene descrive lo stato d'animo del caregiver suggerendo un banale quanto efficace stratagemma di uso narrativo del social network per sfuggire al senso di solitudine prodromico della sindrome di Burden.
Nel suono ovattato del silenzio di una notte, tra un’urgenza e un caffè fumante per tenerci svegli; o nel caos del mattino, tra la rincorsa al tempo che manca, il rispondere alle domande preoccupate dei familiari, o il fermarsi su quel volto che ti sorride, con la piena consapevolezza che forse non arriverà a domani; in un giorno di festa, dove la tua famiglia diventano le mura del reparto e i suoi abitanti; nell’ennesimo turno saltato, in quella lite tra colleghi, nelle gambe stanche per il tempo passato in piedi, in quella mano che chiede aiuto, in quell’altra che ti allontana, nell’armadietto che custodisce le chiavi che separano il microcosmo dell’ospedale dalla vita fuori, ma che non riescono a lasciare ripiegate le emozioni, come facilmente si può fare con una candida divisa… in tutto questo c’è l’essenza grave e meravigliosa dell’essere infermieri, curanti tra i curati, stretti in una solidarietà tacita, che accomuna e talvolta separa. E che chiede di essere ascoltata”.
Si condensa in poche righe narrate su un social network il vissuto dell’essere curante; una scelta che è, al contempo, dono e fardello, in una dimensione di alterità che sollecita incessantemente emozioni talvolta contrapposte, ma che sempre necessitano di essere toccate e rielaborate.
Il “mestiere” della cura è molto oneroso, in quanto richiede di decentrarsi per dare spazio alle richieste di aiuto di un’altra persona; cura è infatti, nell’accezione heiddegeriana del termine, sollecitudine, presenza autentica. Ma presenza autentica significa portare all’altro un noi altrettanto autentico, fatto di pienezza, mai di vuoto. Non possiamo avere interesse per qualcuno se esauriamo o ci viene richiesto di esaurire l’interesse per noi stessi. In sintesi: non possiamo aver cura autenticamente di qualcuno se non coltiviamo la cura per noi stessi. Solo chi è “sano” può infatti offrire il giusto e adeguato aiuto.
Non possiamo aver cura autenticamente di qualcuno se non coltiviamo la cura per noi stessi.
Il professionista sano è quello che ha fatto i conti con i propri limiti, le proprie ferite, le proprie malattie, ricordando la metafora del “guaritore ferito”. Accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte, emerge infatti il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei ruoli, curante e paziente. La repressione di uno dei due poli della coppia porterebbe il curante a una soglia pericolosa caratterizzata dalla convinzione di non avere nulla a che fare con la malattia. Un curante senza ferita non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: da un lato sta il curante, sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole. La comprensione di “ciò che passa dentro” quando ci relazioniamo con gli altri, l’accettazione di ogni sentimento, anche quelli più negativi, raffigurano dunque il principio di ogni relazione, poiché se non riconosciamo le nostre fragilità, se non accettiamo e includiamo ogni sentimento che l’altro ci evoca, il grande rischio è di rimuoverli, di non farne esperienza. E in ogni caso, nella professione così come nella vita, quando non affrontiamo ciò che siamo, prima o poi ci viene chiesto conto. E come si manifesta il non lavoro su noi stessi in ambito di relazione con il paziente? Con il rifiuto celato nell’indifferenza, con il distacco, con l’incapacità a reggere la relazione. Ecco che invece riconoscere le nostre fragilità è modo per affrontarle, talvolta restituirle al paziente, ma con autenticità e congruenza. Essere autentici è il primo e grande impegno per poter aiutare l’altro.
Dice, a tal proposito, Eugenio Borgna: “Senza vivere in noi stessi questo tentativo continuo, oscuro, a volte difficile, a volte impossibile, di un’attenzione rivolta permanentemente a cogliere cosa si muove in noi per cercare di cogliere cosa si muove nell’altro, non si può fare psichiatria, non si può fare sociologia, né alcuna umana disciplina che implichi un contatto con l’altro, come l’accompagnarsi per un tratto di strada con qualcuno che chieda aiuto”.
Coltivare gli interrogativi che la relazione con l’altro ci pone, avere la possibilità di restituirli e condividerli con i colleghi, operare in un ambiente che accoglie spazi di confronto e in organizzazioni orientate a prendersi cura di chi cura sono alcuni strumenti potentissimi nell’aiutare a coltivare una dimensione di serenità nello svolgimento della funzione curante.
I luoghi della condivisione sono le cucine dei reparti, le salette dello scambio di consegna tra un turno e l’altro, i momenti strutturati di incontro, le aggregazioni extra lavorative, e altresì le nuove tecnologie social, che possono fungere da rinforzo nel creare quello spirito di coesione e appartenenza utile ad allontanare la solitudine che spesso si vive nel quotidiano agire.
Il virtuale, in particolar modo, oggi rappresenta un “non luogo” dove permettere lo sviluppo di un’identità condivisa, dove sentire di poter narrare il sé con libertà, e nel quale ritrovare matrici di esperienze condivise. Un social network attiva reti che avvicinano nel tempo e nello spazio, ma che richiedono di essere utilizzate in modo consapevole, coordinato, altrimenti rischiano di diventare contenitori di emozioni non mediate dalla rielaborazione e per le quali diventa difficile operare un’attribuzione di senso e di crescita interiore.
La mia esperienza personale di utilizzo attivo dei social media, sia nella gestione di gruppi professionali, sia nella conduzione di un profilo Facebook individuale che spesso diventa luogo di narrazioni legate alla cura, mi ha permesso di sperimentare la forza con cui è possibile essere comunità anche tra persone che non si conoscono, unite da un sentire comune che si esplica in una condivisione virtuale ma autentica.
La “connessione” che connette mondi può diventare una medicina per la solitudine.
La “connessione” che connette mondi può diventare così una medicina per la solitudine, e contribuire a co-costruire narrazioni di senso da ricondurre nei luoghi di vita di ciascuno, affinché si possa davvero aver cura di chi cura.
scritto da Alessandro Bruni e Paola Arcadi
per approfondire si veda anche il post precedente sulla demenza