Chi è l'altro per me? Non l'altro dei filosofi o dei sociologi, ma l'altro che incontriamo quotidianamente in metropolitana, a scuola, al supermercato. Subito facciamo una distinzione tra l'altro e gli altri: perché differente è per noi il vicino di casa e dagli altri che formano una comunità differente dalla mia.
Il solco tra concetto individualistico filosofico dell'altro e concetto collettivo sociologico degli altri come comunità differente dalla mia rimane ampio. Si pensi al tempo delle leggi razziali quando l'ebreo nostro vicino era nostro amico, mentre gli ebrei nel loro insieme erano da osteggiare, tanto da divenire noi indifferenti nel momento in cui il vicino, con il quale avevamo condiviso la tavola, veniva deportato. Un comportamento di scollamento relazionale al quale si fatica a dare spiegazione e che è ancora ben presente nella nostra società.
Il fatto: Il sor Ernesto di Mattia Feltri da La Stampa del 12 marzo 2019. Ogni volta che ci si chiede se l’Italia sia un paese razzista (e succede sempre più spesso, nelle trasmissioni tv, a cena), a me viene in mente Erno Egri Erbstein. E’ un uomo che noi granata conosciamo bene: fu l’architetto del Grande Torino e morì a Superga nella sciagura di cui il 4 maggio ricorrerà il settantesimo anniversario. Mi viene in mente Erbstein, ungherese e figlio di padre ebreo, e quanto è sciocca la domanda, perché un paese non potrà mai essere razzista o non razzista, ed è una qualifica – razzista o non razzista – difficile da applicare irrimediabilmente anche a una sola persona. In tutti noi c’è una quota di pregiudizio, è inevitabile, dipende da quanto lo assecondiamo, sale o scende secondo le circostanze, talvolta è combattuto e dominato, altre volte resta nascosto in un angolo, altre ancora ci porta dritti all’abisso. Mi viene in mente Erbstein, quest’umanista che applicò la filosofia, la psicologia e le scienze alimentari al calcio, e si svelò agli sportivi conducendo la Lucchese dalla serie C al sesto posto in serie A. A Lucca era un re e lo chiamavano sor Ernesto. Quando rientrava con la squadra vittoriosa da trasferte di sentito antagonismo, lo aspettavano alle porte della città e lo portavano in trionfo sulle mura. Smisero di chiamarlo sor Ernesto quando nell’estate del ’38 furono varate le leggi razziali: non lo salutarono più, lo guardavano di sbieco, e lui dovette fuggire a Torino, e poi anche via da lì, di ritorno a Budapest dove gli diede la caccia Adolf Eichmann. Non dobbiamo chiederci se siamo razzisti o no, ma quanto siamo disposti a cedere al soffio del vento.
Lévinas dice che il prossimo ci riguarda prima ancora di ogni assunzione, prima di ogni impegno consentito o rifiutato, per cui siamo a lui legati sebbene sia uno sconosciuto con il quale non abbiamo alcun legame: “mi ordina prima di essere riconosciuto”, pur essendo una relazione fuori dalla biologia e contro ogni logica. L'altro, dunque, ci interessa non in quanto appartenente alla nostra cerchia di relazione, ma perché è “altro”.
Questa relazione racchiude un paradosso: se questo altro generico ci interessa tanto perché facciamo tanto per isolarlo, confinarlo, ucciderlo? È un non riconoscimento o un meccanismo di difesa?
L'uomo come unica specie umana oggi presente sulla terra (in passato erano presenti altre specie umane oggi estinte con le quali ci siamo talora ibridati) dovrebbe avere come preminente il senso di comunità e di appartenenza a questa come individui. Eppure ieri come oggi su questo abbiamo fatto distinguo oggetto di scontro e di affinità. Dobbiamo distinguere il senso di fratellanza con l'altro su due piani: quello individuale di confronto con il vicino di casa e quello sociale collettivo nel confronto tra società. Nel primo caso spesso il senso primigenio di fratellanza supera il pregiudizio, mentre nel secondo caso spesso il pregiudizio supera il senso di fratellanza.
Per Lévinas l'ospitalità non è un'esperienza, ma una condizione mentale che interrompe il sé e si apre a un volto immateriale, mentre l'accoglienza è una condizione che esige la fisicità di condivisione dello stesso spazio, della propria casa, del proprio agire. Fatti propri questi due aspetti nasce il concetto di dimora, che non ha nulla di anagrafico, di anonimo, va una condizione in cui l'altro viene verso di sé, di un ritiro a casa propria come terra di asilo, come luogo antropologico di relazione con l'altro.
Secondo Lévinas solo la democrazia può garantire la pace sociale e quella tra le nazioni. Nella triade sociale evolutiva prima descritta, accoglienza, ospitalità, dimorazione, la guerra si verifica solo nella alterazione del primo livello, quello dell'accoglienza dato che la guerra si può fare solo ad un “volto” e dato che ospitalità e dimorazione sono elementi fondanti della pace. Infatti, possiamo dichiarare guerra ad un volto collettivo (gli stranieri di una nazione, gli stranieri di un'altra religione, di un'altra etnia), ma difficilmente dichiariamo guerra ad una persona ospitata e che ha trovato in noi dimorazione.
Il messaggio di Lèvinas è più che mai attuale in questo nostro tempo tormentato da conflitti sociali e odi razziali e ci invita a rivedere il concetto di identità su cui si fonda e che ossessiona da sempre la nostra cultura.
L'Italia da un lato esprime un sentire attraversato dall'idea che la sua tradizione culturale sia l'unica portatrice di norme e di valori e dall'altro che la cultura è anche educazione delle coscienze, per cui non stupisce se si sia arrogata il nobile compito di educatore dell'umanità, senza mai discutere la coincidenza, ritenuta ovvia, tra “umanità” e “uomo bianco-europeo maschi”. Si tratta di un nesso essenziale, necessario e inscindibile tra cultura e imperialismo.
Lévinas, infine, ci ricorda che la “differenza” precede “l'identità”, la quale ha una radice nomadica ed è esemplificata nella storia di Abramo, che sostituisce il mito di Ulisse. Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca egli contrappone la storia di Abramo che lascia e proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza. In questo errare s'incontra l'Altro con la faccia dello straniero, l'estraneo, che è “infinita vicinanza”, di cui si porta la responsabilità.
scritto da Alessandro Bruni con nota di Mattia Feltri