Ritorno su un tema già visitato in questo blog più volte e in varie forme. La definizione di mondialità appare oggi sempre più liquida, sempre più incerta, tanto da risultare spesso così universale da perderne i confini e sfociare in un banale ipertrofico che ne scolora la determinazione. Le ragioni sono molteplici e partono tutte dal fatto che l'espressione “mondialità” non si riferisce ad un problema concreto, ma all'ampio orizzonte entro cui si muove un concetto culturale etico e globale. La mondialità oggi troppo spesso è confusa con l''internazionalismo che è riferito alle nazioni, dimenticando che la mondialità ha un ambito ben più ampio che comprende almeno tre macroaree etiche: i diritti umani, la globalizzazione e il multiculturalismo.
I diritti umani sono divenuti il linguaggio di comunicazione degli individui e delle culture nel regime del pluralismo. Ben pochi altri valori o ideali del passato possono vantare quel consenso universale che oggi riscuotono i diritti. Essi esprimono la rivendicazione sempre più frequente del diritto alla propria identità individuale e collettiva avanzata nei confronti di chi ha un'identità differente.
Questo significa che nel regime del pluralismo l'unica possibilità di comunicazione tra le differenti famiglie culturali, ideologiche e spirituali sembra essere data proprio dai diritti. Esse non si capiscono, sono spesso mondi chiusi in se stessi, e tuttavia riescono a comprendere cosa può voler dire rispettare i diritti dell'altro e del diverso, perché sanno cosa significa chiedere ed avere il rispetto dei propri diritti.
Sembra proprio che l'unica forma di etica possibile nel futuro non possa che essere "l'etica dei diritti". Nessuno li nega, anche se poi ciascuno l'interpreta a suo modo. Ed allora per il futuro il nostro problema cruciale sarà non già se gli uomini abbiano diritti, ma quali essi siano e come debbano essere interpretati e applicati. Ed è proprio su questo punto che intervengono da versanti opposti i due macro-fenomeni della globalizzazione e del multiculturalismo.
Universalità significa globalità? Questo interrogativo diventerà sempre più pressante per gli uomini del terzo millennio ed è prevedibile che in nome di diritti dell'uomo male intesi si possano escogitare nuove forme di violazione della dignità umana. Già fin d'ora possiamo notare, senza per questo demonizzare la globalizzazione, che essa non rare volte è una glocalizzazione,
cioè l'espansione mondiale di aspetti di una cultura locale. Si tratta dell'imporsi di un modello culturale determinato sugli altri con l'effetto di ridurre quest'ultimi ad espressioni parrocchiali e localistiche. Nella sostanza si tratta della vittoria di un'entità locale nel mercato della cultura.
"Multiculturalismo" non significa soltanto che stiamo prendendo dolorosamente coscienza della incommensurabilità della molteplicità delle culture, delle etnie, delle tradizioni religiose e delle visioni del mondo, e della loro potenzialità conflittuale, non significa soltanto che questa tensione è interna alla stessa società multiculturale, che si trova di fronte all'arduo compito di dover fondarsi su un ethos comune in quanto è "società" e di non poterlo fare rispettando l'eguaglianza delle culture che la compongono.
Multiculturalismo religioso. Il modo giusto di praticare il multiculturalismo, cioè quello che consente di non violare l'universalismo dei diritti, richiede necessariamente il coinvolgimento delle grandi religioni, sia di quelle profetiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) che di quelle naturali dell'Asia e dell'Africa. È noto, infatti, che il fattore religioso costituisce tradizionalmente il nucleo duro dell'identificazione culturale. Spesso la resistenza al mutamento delle pratiche culturali è giustificata dal valore simbolico sacrale che un determinato popolo attribuisce ad esse.
Ed è in questo spirito che bisogna leggere la Dichiarazione emessa già nel 1970 a Kyoto dalla Conferenza mondiale delle religioni:
«Ci siamo resi conto che possediamo in comune: una convinzione sulla fondamentale unità della famiglia umana, sull'uguaglianza e sulla dignità di tutti gli uomini; un sentimento dell'inviolabilità della singola e della propria coscienza; la convinzione che potere non equivale a diritto, che il potere umano non è né autosufficiente né assoluto; la fede che, in fondo, l'amore, la compassione, l'abnegazione, la forza dello spirito e della veracità interiore hanno un potere più grande dell'odio, dell'inimicizia e degli intessi privati; un sentimento del dovere di stare dalla parte dei poveri e degli oppressi contro i ricchi e gli oppressori; la profonda speranza che, alla fine, vincerà la volontà buona».
L'esperienza dell'interculturalismo, che non bisogna confondere con il multiculturalismo perché non ha per obiettivo la costruzione di un ethos comune ai fini della convivenza sociale, è senza dubbio il terreno più propizio per questa comunicazione delle grandi religioni, che così non si sentono minacciate nella loro identità. In questo senso il Mediterraneo torna ad essere un laboratorio privilegiato per la sfida dell'universalità dei diritti dell'uomo. Noi siamo ancora in cammino verso la loro autentica universalità e non dobbiamo credere di averla già conquistata.
Spesso identifichiamo la mondialità con una particolare concezione della dignità umana capace di dar forma al proprio destino con le sue scelte morali e di elaborare un proprio progetto di vita, ma sono anche i diritti della creatura gettata nell'esistenza e bisognosa di aiuto per salvare la propria vita, cioè i diritti della fragilità e della finitudine umana.
scritto da Alessandro Bruni