“Ben presto mi resi conto che nel lavoro con le persone con demenza non si può ignorare il loro mondo”, racconta Eleonora Belloni nelle prime pagine di Alzheimer, badanti, caregiver e altre figure leggendarie (Il Pensiero scientifico Editore, 286 pagine, 2019). Il mondo a cui si riferisce è quello fatto di vissuti e sentimenti, di quell’insieme di persone – familiari e badanti – che sono i principali attori della cura dell’Alzheimer e di altre forme di demenze. Proprio attraverso le voci dei caregiver, a cui spesso non viene riconosciuto il ruolo di “esperti”, Belloni apre le porte e le finestre delle abitazioni dove si svolge quotidianamente quel lavoro complesso di cura e accudimento che richiede sensibilità, pazienza e fiducia reciproca tra familiari e assistenti. Storie vere per uscire dai confini della teoria e per imparare dalle esperienze di vita di queste persone che ogni giorno lottano per trovare soluzioni, con l’obiettivo di dare una prospettiva e indurre una riflessione che conduca all’abbattimento del muro di isolamento e dei pregiudizi che ancora oggi accompagnano le demenze. Un libro che si rivolge a tutti, familiari e assistenti, medici, psicologi e operatori sanitari, e a chi vuole avvicinarsi a questo mondo sconosciuto.
Alzheimer
- Non chiedermi di ricordare, non cercare di farmi capire, lasciami riposare, fammi sentire che sei con me, baciami sulla guancia e tienimi la mano.
- Sono confuso oltre la tua immaginazione, sono triste, sofferente e perso. Tutto quello che so è che ho bisogno di te, stai con me a tutti i costi.
- Non perdere la pazienza con me, non sgridarmi, non rimproverarmi, non riesco a dirti perché mi comporto così, non posso essere diverso anche se ci provo.
- Ricorda che ho bisogno di te, perché la parte migliore di me se ne è andata. Ti prego stammi vicino e amami finché anche la mia vita se ne andrà.
Stralcio dall'introduzione
I miei nonni io non li ho mai conosciuti. A incontrarli è stata una me stessa così piccola da non poter avere ricordi e mi restano solo poche memorie dei miei avi uomini, il nonno paterno e quello materno, ricordi che risalgono ai giorni della loro morte. Mi sono spesso chiesta come sarebbe stato averli come protagonisti delle mie giornate, avere una famiglia che comprendesse tre o più generazioni. È stato forse il desiderio di conoscere qualcosa a me estraneo, oppure il tentativo di colmare una distanza, ciò che mi ha mosso a interessarmi di invecchiamento e poi di demenza.
La prima occasione si presentò negli anni universitari, durante un tirocinio che decisi di trascorrere in una casa di riposo a Padova. Partivo con molta curiosità ma mai mi sarei aspettata di trovare in mezzo alla malattia e alla solitudine così tanta vita: nonostante le limitazioni date dall’età e dall’ambiente controllante vedevo persone che nei modi più svariati cercavano di esprimere sé stesse, i propri bisogni, l’umorismo e la sessualità.
Iniziai così a mettere in crisi alcuni preconcetti che avevo sull’invecchiare e che vedevano “gli anziani” come una categoria composta da individui pressoché uguali tra loro e destinati al declino. L’esperienza mi diceva invece che la realtà era molto più varia e fervida! In casa di riposo ebbi modo di conoscere anche le demenze, malattie che conoscevo poco e che associavo al nome oscuro e infausto dell’Alzheimer.
Dopo la laurea in psicologia decisi allora di addentrarmi in questo nuovo mondo, iniziando un tirocinio in un centro che si occupava di stimolazione cognitiva e sociale per persone con demenza ai primi stadi di malattia. All’inizio del mio lavoro con gruppi di anziani malati ero molto in difficoltà perché li vedevo principalmente come persone deteriorate, delle persone disabili con scarsa memoria, pertanto non sempre capivo l’utilità che potevano avere i lavori di gruppo; trovavo difficile comunicare con loro ed era molto faticoso doversi ripetere, sentire di non essere sempre capita.
Ci fu per me un importante cambiamento quando, dopo qualche settimana, mi ritrovai da sola a condurre un’attività con un gruppo di donne. Non ricordo esattamente, ma si trattava di un esercizio sulle stime, qualcosa di piuttosto complesso che cercavo di spiegare alle signore, le quali faticavano a capire. Mi sforzavo di rendere comprensibile la consegna utilizzando degli esempi, ma nessuna sembrava capirmi, così, mentre io mi ostinavo maldestramente a spiegare il compito, le signore forse per sdrammatizzare, forse per l’assurdità della situazione, iniziarono a fare qualche battuta sull’esercizio.
Come crescevano i commenti, così crescevano le loro risate, finché contagiarono anche me, che mi misi a scherzare con loro, rinunciando a concludere il compito. Quando tornò la responsabile il clima di gruppo era ormai simile a quello di una sagra paesana: ridevano tutte mentre io, un po’ frastornata, abbozzavo delle spiegazioni alla collega.
Dopo due giorni, quando ci rivedemmo, Pina, una signora del gruppo, esordì: “Cos’è che abbiamo fatto l’altra volta? Ci siamo tanto divertite!”. Iniziai a capire che nonostante la malattia era possibile comunicare con loro in un modo molto forte e diretto, un modo che passava dall’uso di frasi semplici e dalle emozioni. Dipendeva da me riuscire a trovare un canale di scambio, un modo di parlare comprensibile che utilizzasse molto il tono della voce e l’espressività.
Vedere come si creavano relazioni all’interno del gruppo, e come i legami duravano nel tempo, mi portò a vedere queste persone non solo nei termini della malattia, come persone con un declino cognitivo, prive di memoria e il cui ragionamento era deficitario, ma come degli esseri umani con gusti, idee ed emozioni proprie. Grazie a questa consapevolezza le possibilità di attività da fare assieme si moltiplicarono. Così iniziai a rivedere i miei termini di paragone, dal momento che anche un piccolo intervento o una battuta, proprio alla luce della malattia, erano da valorizzare ed erano un segnale di benessere.
Non era più così importante concludere gli esercizi o farli alla perfezione, quanto creare legami e offrire uno spazio non giudicante in cui ciascuno avesse la possibilità di esprimersi con i propri modi e i propri tempi. Ben presto mi resi conto che nel lavoro con le persone con demenza non si può ignorare il loro mondo. Un mondo interiore di vissuti e sentimenti, ma anche un mondo fatto di relazioni, famiglie, parenti vicini e lontani, persone che si prendono cura.
Ogni malato che ho conosciuto in quegli anni, se partecipava ai gruppi, era grazie alle cure e agli sforzi di un’altra persona (solitamente un coniuge o un figlio, definito “caregiver familiare”) che si interessava al suo benessere e che con estrema tenacia cercava di convivere con la malattia. Per questo si parla della demenza come di una “malattia familiare”, poiché ad essere colpito non è solo il malato, ma tutto l’entourage che vive con lui e se ne prende cura. .....
scritto da Eleonora Belloni
segnalato da Alessandro Bruni