Nel linguaggio religioso anti-evangelico, quando diciamo che è Dio che vuole che ci siano i ricchi e i poveri, i malati e i sani... vogliamo stendere sui lettucci degli uomini malati la coltre dell’impossibilità. Il Dio dell’Alleanza non è affatto il Dio dei filosofi che ha fissato le cose, ma il Dio di Gesù Cristo. Il Padre che vuole che si spezzino le catene. Le catene possono essere spezzate e l’uomo è chiamato a farlo: ecco l’annuncio del vangelo. Se vogliamo, possiamo afferrare la macchina che ci stringe nella sua molla. La molla di questa macchina è l’egoismo, l’amore di sé portato al limite. È possibile spezzarla, purché ci decidiamo a vivere secondo un’altra legge. C’è una possibilità che sorpassa davvero ogni ragione, quella di far propria la condizione degli altri, assumere in sé il destino dell’altro. Solo l’amore è capace di fare unità nella pluralità senza violenza. E in questo modo ci introduce in una nuova comprensione del rapporto con l’altro.
Italo Mancini, che è stato un lucido e profetico interprete di questo fenomeno, afferma sulla scia del filosofo ebreo E. Lévinas, che è ormai giunto il momento di abbandonare la logica occidentale, tutta incentrata prima sull’essere e poi sull’io, per riscoprire invece la logica più biblica del volto. Infatti, sia l’essere che l’io sono stati concepiti come due totalità capaci di fagocitare tutta la pluriforme ricchezza della vita. Il primo ha dominato incontrastato tutta l’antichità e il medioevo. Ad esso si è sostituito l’io dall’epoca moderna fino ai giorni nostri, sempre però sotto il medesimo segno: l’identità unificatrice e totalizzante che esclude il confronto e la valorizzazione della diversità, intesa come apertura all’altro. Per spezzare questo cupo e chiuso orizzonte è necessario ripensare la dimensione dell’infinito. Se la totalità esprime il sogno di disegnare un mondo in cui tutto viene sistemato e conosciuto dall’uomo, ricordare l’infinito richiama provocatoriamente l’impossibilità di esaurire tutta la realtà entro gli schemi umani che la pensano. Ciò che è interessante in questa riflessione è che il rimando ad andare oltre gli schemi, all’infinito, venga dal volto dell’altro, che con la sua estraneità provoca e invita ad uscire da sé.
Troviamo qui riproposto il tema tanto caro alla postmodernità della salvaguardia della diversità e della tolleranza, che si riconduce in fondo al problema del come realizzare la giustizia. La proposta di Lévinas è centrata, infatti, sull’accoglienza ad ogni volto, «perché è volto, ancor prima che sia bello o brutto, sano o malato, dallo sguardo benigno o ostile». Tale logica del volto può essere un’utile fondazione per impostare i rapporti all’interno della società multietnica che i recenti e massicci movimenti migratori stanno provocando. Essa inoltre ci ricorda il mistero di cui ogni uomo è portatore, al di là dei concetti in cui forzatamente lo si voglia far rientrare. La nostra razionalissima cultura si è trovata improvvisamente contraddetta da assurdi che non presentano possibilità di soluzioni. La fame in un mondo ricchissimo, le guerre nel mezzo di una opinione che proclama in tutti i toni la pace, il razzismo e le opposizioni etniche dentro progetti politici di unificazione, la distruzione delle riserve della Terra, operata da una capacità progressiva di possedere l’uso di queste riserve. Tutto questo ha portato alla fine della filosofia, il fenomeno che è il senso stesso della nostra epoca (Lévinas). In base a questa grande amicizia per l’uomo, non dobbiamo chiedere a nessuno le credenziali: «sei dei nostri o no?», «sei del gruppo o no?», «sei cattolico o no?». Se ne siamo capaci, il nostro primo dovere è di ascoltare. Se non siamo liberi dai nostri schemi consolidati, non sentiamo niente. In realtà, non dovremmo interrogarci sul senso della vita, poiché siamo noi ad essere interrogati: siamo chiamati a rispondere alle domande che la vita ci pone. E saremo in grado di rispondere soltanto assumendoci la responsabilità della nostra esistenza.
scritto da Giuseppe Stoppiglia, pubblicato in Madrugada 28