nove italiani su dieci favorevoli alla legalizzazione
Cos'è il suicidio assistito (è il soggetto, anche se aiutato da altri, a porre fine alla propria vita), vietato dalla nostra legislazione, e come si distingue dall’eutanasia attiva (sostanza letale inoculata da terzi) e da quella passiva (il rifiuto di trattamenti salvavita): su questi sottili distinguo, con un pressante invito al Parlamento a legiferare in materia, si è espresso recentemente il Comitato nazionale di Bioetica formulando sei raccomandazioni comuni, rivolte soprattutto al legislatore. Un percorso di riflessione e di formulazione per niente facile e foriero di altre discussioni che inevitabilmente prenderanno strade più politiche che etiche.
Il dibattito sull'eutanasia si accende periodicamente in Italia, spesso con un disordine proprio da opinionisti che si appoggiano ad un'etica chiusa di negazione senza addentrarsi nel problema di fine vita o ad un'etica semplicistica basata sul “tanto non c'è più nulla da fare”. Il dibattito sui media segue più la strada del pregiudizio, sia esso religioso o comunque tanto tradizionale da non affrontare con realtà il problema delle persone terminali, sia esso pseudo-libertario di personale responsabilità della propria vita. Non vi è dubbio che la maggior parte delle persone oggi per se stessi preferirebbe una morte programmata, piuttosto che la lunga e dolorosa strada dell'hospice.
Non deve sorprendere che, se in Italia il discorso lo si pone in termini generali, prevale la soluzione che nega l'eutanasia in qualsiasi forma, mentre sul piano personale si desidererebbe una morte rapida, anche programmata.
Diciamo che l'ultima parola in termini di vita spetterebbe al malato, ma la sua morte è di fatto regolamentata da leggi, da disposti etico-religiosi, da etica professionale da parte di persone che lo assistono. Di fatto nella morte programmata si intrecciano etiche differenti di persone differenti poiché il malato, ammesso che sia lucido, difficilmente può decidere da solo. È in questo intreccio che si muove la legislazione che deve tenere conto di un'etica comune senza negare l'etica del singolo. Ovvero un problema di fatto complesso che non coinvolge solo l'etica del malato, ma anche l'etica delle persone che lo amano, che lo assistono, che ne permettono l'esistenza, seppure a fronte di un cammino spesso di intenso dolore fisico ed esistenziale.
La morte assistita è di fatto un problema morale di difficile risoluzione che nasce soprattutto nei paesi tecnologicamente avanzati dove i sussidi sanitari permettono di prolungare la vita di un malato terminale ben oltre la speranza. Bisognerebbe compiere una riflessione più sostanziale e concreta senza basarsi solo sui nostri pregiudizi (veri o falsi che siano, ma sempre assolutamente personali).
Bisognerebbe andare in visita etico-culturale in uno dei tanti residence per anziani. Non sto dicendo di visitarne uno perché un nostro congiunto è ricoverato (in attesa della morte) perché in questo caso il nostro coinvolgimento sarebbe troppo personale, ma fare una visita conoscitiva. Questi sono luoghi, anche quando sono gestiti nel modo migliore, che la società civile “nasconde”, sono in definitiva dei moderni “lazzaretti” gestiti da persone normali che fanno un lavoro assai gravoso, essendo quotidianamente in contatto con l'essenza della demenza, con il dolore, con la morte, ma anche con l'abbandono dei familiari che spesso si “dimenticano” del vecchietto solo, presi come sono dall'”urgenza di vivere” la loro vita.
Il confinare il vecchietto in una residenza per anziani dovrebbe essere l'ultima scelta familiare nella constatazione di essere incapaci di gestirlo. Dovrebbe in definitiva essere una scelta di dolore per la propria incapacità, una scelta di dolore per la sradicazione degli affetti nella consapevolezza di collocare il congiunto in una struttura limitativa per la sua libertà, limitativa per i nostri affetti (con lui lontano e “protetto” si tende a dimenticarlo, a giustificarlo a destinarlo ad una morte civile, magari civilissima ma in sostanza di morte “programmata” anche se non si sa quando).
Mi viene da pensare che questa altro non sia che una “eutanasia sociale nascosta” dove viene fatto salvo il nostro pregiudizio etico di negazione dell'eutanasia, ma dove di fatto noi parenti abbiamo scaricato il vecchietto condannandolo ad un fine vita lungo nell'oblio e in una nostra vita di scarico di responsabilità. Inutile negarlo, in questi luoghi si aspetta la morte senza un barlume di speranza (terrena); le visite via via si diradano, la comunicazione diviene più difficile, non si sa che parlare. È fatica e sofferenza vederlo nel letto incapace di muoversi autonomamente con catetere e piaghe da decubito avvolto da un grosso pannolone. È doloroso accettare che non ti riconosca, ma è ancora più doloroso che ti riconosca perché in questo caso ti fa nascere sensi di colpa (se hai coscienza e senso della tua terminalità. Il dolore massimo è anche nel vederti nel suo letto, quando toccherà a te).
Ma non si muore solo nelle residenze per anziani, si muore anche negli hospice dove si è ricoverati in attesa che la malattia abbia la sua evoluzione e che le cure mediche non praticabili né a casa, né negli ospedali portino ad un qualche esito. È in questi luoghi dove si consuma una forma di avvio al fine vita in bilico tra la morte naturale senza accanimento terapeutico e la morte sperimentale “tecnologica”, dove quest'ultima, meno nota, più sottile, pone molti meno problemi pregiudiziali. Su questa forma di fine vita medicalmente assistita si fa un gran parlare oggi negli USA (domani anche da noi).
Negli USA la FDA (US Food and Drug Administration) consente temporaneamente l'uso di farmaci sperimentali dimostratisi attivi in casi di esigenza medica insoddisfatta, in attesa di studi di conferma che dimostrino un beneficio clinico (es. maggiore sopravvivenza per i pazienti oncologici, purtroppo senza chiedersi in che condizioni). Questa apertura di "credito" nei confronti di un farmaco innovativo attivo, ma ancora non efficace, trova la sua base etica nel Principio di Precauzione (P.P.), inizialmente utilizzato solo per condizioni di incertezza scientifica circa i rischi (specie ambientali) derivanti dall'azione di sostanze o di procedure. Oggi questo principio ha esteso in maniera originale il proprio significato anche alle decisioni mediche "a rischio" caratterizzate dal senso di "urgenza di adesso" (semplificando: dato che stai per morire ti somministro un farmaco sperimentale per vedere se sopravvivi anche se so in partenza che hai pochissime probabilità di farcela e che comunque se sopravviverai sarà per uno o due anni in condizioni difficilmente di autosufficienza).
Sul piano etico gli oncologi si dividono tra quelli che vogliono tentare l'impossibile superando i limiti della scienza pur di sconfiggere la malattia e quelli che guardano la persona e non ritengono etico forzare un vivere comunque senza speranza scientifica. Difficile dire chi è nel giusto, anche se in ultima analisi è il paziente che dovrebbe dare il consenso informato al trattamento e al fatto che bisognerebbe almeno valutare “caso per caso” in modo obiettivo con un consenso informato chiarito e profondamente condiviso, il che non è facile soprattutto per la distanza comunicativa siderale tra paziente medio e medico medio. Infatti, il consenso informato è difficile comprenderlo sino in fondo da parte del malato che finirà col ragionare espressamente sulla base del suo personale pregiudizio, dato che difficilmente può capire la natura clinica del trattamento.
Gli oncologi tendenti a non usare farmaci sperimentali si chiedono perché usarli se solo un quinto degli studi di conferma hanno poi dimostrato miglioramenti nella sopravvivenza globale del paziente: non sarebbe meglio rivalutare i requisiti per le prove di conferma per ottenere informazioni pre-marketing più clinicamente significative?
Sul piano etico questo modus operandi tecnologico e strisciante può essere ricondotto di fatto ad un'azione di eutanasia nascosta che si ammanta di un progresso scientifico solo parziale, con il sospetto di usare il paziente terminale per la validazione del farmaco, piuttosto che per il suo vantaggio di una vita migliore e dignitosa, anche se più breve.
La morte per vita completata
In Olanda gli anziani che chiedono di morire perché stanchi di vivere già lo possono fare, in gran parte, con la legge vigente, quando presentano anche «sindromi geriatriche multiple», cioè tanti acciacchi non letali ma pesanti, tipici dell’età avanzata, come ad esempio problemi circolatori e di movimento, sordità e cecità in vario grado, incontinenza, non autosufficienza. Situazioni riconducibili a cause mediche, quindi, che possono dare una sofferenza insopportabile e prolungata, senza rimedio, verificabile da un medico. Ma per il Governo olandese questo non basta: l’autonomia dei cittadini è un bene prioritario, «anche uno dei princìpi guida dell’attuale programma della coalizione governativa», e sarebbe a rischio se la si riconosce 'solo' a chi vuole suicidarsi per cause mediche.
Il Governo olandese propone quindi una nuova legge, accanto a quella già in vigore, che sia dedicata esclusivamente a questa particolare fattispecie: un suicidio assistito a chi soffre per il fatto di vivere.
I requisiti dovrebbero essere un’età minima, poiché si suppone che soprattutto gli anziani possano ritenere la loro vita terminata, e una volontà libera, consapevole e persistente di morire. E poiché non serve un medico per verificare tutto questo, il ministro della Salute propone di istituire una nuova figura professionale: il consulente di fine vita. Un professionista con formazione ed esperienza in «problemi esistenziali e psico-sociali, e nella consulenza con persone in fine vita». Oltre a medici, anche infermieri e psicologi, ad esempio, per i quali sarà necessario prevedere un percorso formativo ad hoc. Di fatto si tratta di due diverse possibilità di suicidio per gli anziani: un percorso più complesso per i malati e uno facilitato per i sani, dei quali va accertata unicamente la volontà.
Il Paese che per primo ha legalizzato l’eutanasia sta quindi per giungere al compimento logico del suo percorso: lo Stato può abbreviare la vita a un suo cittadino se questi ritiene sia arrivato il momento di morire, a suo proprio insindacabile giudizio. Il puro 'diritto a morire', insomma, dove quel che conta è solo la volontà di una persona di farla finita. D’altra parte, se il criterio principe è quello della autodeterminazione su tutta la propria esistenza, compreso il trapasso, per quale motivo limitarsi solo a chi è malato? E se per accedere all’eutanasia il requisito fondamentale è quello di soffrire intollerabilmente e in modo prolungato, perché includere solo i patimenti di una malattia, fisica o psichica, ed escludere la sofferenza di una vita che si ritiene senza senso? E se il motivo è esclusivamente soggettivo, come può esserlo la percezione di una esistenza senza speranza né significato, come si potrà mai prevenire questa volontà suicidaria?
Quale alternativa si può dare?
La radice di questa ulteriore evoluzione della morte assistita, per chi è stanco di vivere, sta già tutta nei criteri con cui l’eutanasia entra nell’ordinamento giuridico: in presenza di una sofferenza che percepisco come intollerabile è meglio la morte, che diventa un diritto esigibile. Qualsiasi sia la fonte del soffrire.
Sappiamo che ogni volta che l’eutanasia entra nell’ordinamento giuridico si trasforma in atto medico, una sorta di palliazione estrema, all’interno di un percorso di cura, senza più connotazioni negative. La morte procurata su richiesta, per stanchezza di vivere, toglie anche l’ultimo alibi: non serve neanche il dottore, basta un professionista dedicato. Come un qualsiasi altro servizio fornito dalla amministrazione statale: è sufficiente presentarsi allo sportello giusto, al funzionario apposito....
Diciamolo in termini concreti. Un tema etico di grande portata come il fine vita esige una riflessione profonda da parte dei cittadini, di un tempo di riflessione e di un tempo di confronto. Il pericolo maggiore è determinato dall'appropriarsi del tema da parte della politica o di una religione con il risultato di posizioni bianche o nere senza una vera riflessione personale da parte di ogni cittadino. Appare chiaro che un simile argomento tanto complesso e tanto difficile non è nelle corde etiche unilaterali di certi politici o di certi prelati.
Fino a quando continueremo a scandalizzarci dei maltrattamenti nelle case di riposo, dei trattamenti iniqui, del business dell'anziano, senza cercare di trovare una soluzione decorosamente praticabile? Le case di riposo hanno necessità di controlli più accorti, ma soprattutto di servizi di qualità con una formazione costante degli operatori (a causa dell'alto rischio di burn out), con la presenza di medici stabili qualificati, con la presenza di psicologi, con riunioni di mutuo aiuto tra operatori e parenti.
Il mio auspicio è che, su un tema così delicato, possa essere avviato nel più ampio spazio pubblico, un dibattito sereno e approfondito. Ritengo che il compito principale come cittadini sia quello di contribuire ad avviare un percorso di carattere culturale e spirituale che favorisca una maturazione della consapevolezza collettiva. Tale dibattito dovrebbe essere condotto tenendo a mente sia le evidenze scientifiche a oggi disponibili, sia i dati sulla legislazione dei paesi che negli ultimi venticinque anni hanno intrapreso un simile percorso.
Nella consapevolezza di affrontare un tema controverso, ho tentato di distinguere tra diversi livelli del discorso, che spesso si intrecciano e si confondono reciprocamente.
Il mio punto di vista, aperto ad una discussione di fede, non pretende di assolutizzare una morale speciale, ma è attento al contesto entro cui le scelte individuali e le dinamiche politiche avvengono. All’interno di questo contesto, ritengo che non esistano ragioni universali per giudicare moralmente illegittima la scelta di morire da parte di un individuo, ma riconosco tuttavia che esistono argomenti di prudenza che consigliano di essere attenti alle possibili dinamiche sociali negative di una legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito.
Qualsiasi possa essere la situazione adottata, penso che l’autonomia individuale, concetto difficile da definire e ancor più difficile da misurare nel concreto, non possa essere l’unico criterio socialmente accettabile per legittimare la scelta individuale di richiedere un aiuto al morire. L’autonomia rappresenta un elemento necessario, ma non sufficiente, di una buona legislazione sul fine vita: accanto ad essa, i principi ispiratori di tale legislazione dovrebbero essere la beneficenza (occorre dare risposta alla richiesta di eutanasia e di suicidio assistito di coloro che soffrono in maniera intollerabile), la non maleficenza (è necessario evitare abusi sociali nell’accesso ai programmi) e l’equità (la morte priva di sofferenza non dovrebbe essere il privilegio dei più abbienti).
Resta che, dal punto di vista etico e antropologico, la morte volontaria dovrebbe essere considerata un male minore e non un’espressione suprema della libertà umana o un espressione indiscutibile di coercizione etica formulata da altri. Ritengo che, per evitare pericolose chine scivolose, un’eventuale legalizzazione o depenalizzazione dell’aiuto al morire dovrebbe necessariamente essere legata a un dato oggettivo che prevenga abusi e dunque ad una diagnosi di carattere medico.
scritto da Alessandro Bruni dopo la lettura del n. 7 di JAMA Intern Med. 2019;179 e di Avvenire del 16 agosto 2019 dedicati al fine vita dei quali si sono utilizzati ampi stralci. Focus senilità Focus fine vita