Raggomitolato fra la Thailandia e il Vietnam, il Regno di Cambogia si affaccia sul Golfo del Siam. Pio Sabin ci ha inviato le foto del suo viaggio nel sito archeologico di Angkor, già capitale dell’impero Khmer. Al suo interno Angkor Wat è l’edificio religioso più grande al mondo. Un tempo qui era tutta giungla, e la giungla cerca di riprendersi ciò che le sembra suo, con radici di alberi di fico che sovrastano le porte.
Angkor vive di turismo, i suoi abitanti sono quasi tutti poverissimi. Capita che un bambino ti insegua, col suo flauto fatto in casa. E con la carta ti prepari un fiore bianco e ti insegua finché non gli dai un dollaro, insistente, ma senza cattiveria. Perché in Cambogia sono quasi tutti gentili ed è incredibile dopo tutto quello che hanno sofferto. Non c’è famiglia cambogiana che non abbia un proprio caro morto a seguito dello sterminio operato dai khmer rossi, guidati da Pol Pot, negli anni settanta; presero il potere in Cambogia dichiarandosi paladini dell’antica tradizione khmer, il popolo fondatore di Angkor. Era una tradizione di tutto rispetto, fatta di religiosità e umanità, ma Pol Pot e i suoi seguaci la distorsero. Costrinsero i cambogiani a trasferirsi nei campi di lavoro delle campagne, dove attuarono esecuzioni di massa, anche di bambini.
Davanti a queste foto di vita, è impossibile non pensare alla morte, alla ferita aperta nel cuore del popolo cambogiano. Fa male pensare che Pol Pot non abbia pagato per i suoi crimini contro l’umanità. Morì poco prima di essere consegnato a un tribunale internazionale. Ma alla fine la vita trova sempre il modo di emergere, penso al bambino che intesse il mitico albero della vita all’angolo di una strada (le foglie numerose, le radici profonde, i frutti preziosi perché abbondanti in un unico periodo dell’anno), penso alla bambina che galleggia su un contenitore di plastica blu (loro galleggiano su tutto). Penso anche alle statue dei deva, i semidei della mitologia induista, raffigurati nell’atto di tirare la coda a Va¯suki, il re dei serpenti, per la zangolatura dell’oceano di latte. I semidei avevano bisogno di tirar fuori dall’oceano l’amrita, il nettare dell’immortalità che vi si trova dentro e che serve a loro per avere la meglio sugli Asura, crudeli demoni.
Simbolicamente, questo mito rappresenta lo sforzo spirituale degli esseri umani per ottenere l’immortalità o la liberazione dal ciclo delle rinascite attraverso pratiche yogiche come la concentrazione, il ritiro dei sensi, l’autocontrollo, il distacco, le austerità e la rinuncia. I monaci sono una parte importante della vita di Angkor, questi uomini vestiti di arancione che popolano le strade sono molto rispettati. Nessuno negherebbe loro una scodella di riso.
Pare che tutti gli uomini, finiti gli studi, passino un periodo di monachesimo. Eccoci in questa strada sconnessa, strappata alla giungla, dove l’infelicità sembra appartenere a un’altra epoca e si va in giro col tuk-tuk, il singolare taxi a tre ruote. Il pesce essiccato è esposto in bella vista e ovunque il volto di un antico re molto severo, ti guarda con i suoi occhi fissi. Questi antichi re facevano a gara per costruire templi che superassero in magnificenza quelli dei loro predecessori. Intanto due persone in barca forse si stanno sposando, vestiti di giallo. Una ragazza ha un fiore frangipane sulla testa e una donna ha i capelli avvolti nel tipico velo a scacchi kroma: le donne cambogiane lo usano per qualunque cosa, non solo come semplice indumento caratteristico.
Mentre il nostro viaggiatore, turista o pellegrino, si ritrova e si perde tra le raffigurazioni delle apsaras, semidee danzatrici incise sulle pareti dei templi sono incise apsaras: solo in Angkor Wat se ne contano ben 1850, tutte diverse.
scritto da Cecilia Alfier, pubblicato in Madrugada 115