Guardiamo l'immagine: un uomo spinge un'auto in panne. Si è offerto di spingere l'auto d'impulso, non si è nemmeno tolto lo zaino dalle spalle, perché gli sembrava la cosa giusta da fare. Non bastava una telefonata al soccorso stradale? Chi è costui? Un volontario!
Da lungo tempo ormai si studiano le ragioni per le quali si diventa volontari. In tempo di condanna dei buonisti, ma anche precedentemente, ci si chiede perché qualcuno si presta a faticose iniziative per determinare un rapporto prossimale con persone ritenute sofferenti per qualche causa sociale, economica o sanitaria.
Partiamo da considerazioni legate alla persona del volontario. Ogni volontario si chiede “perché lo faccio?”. Nella risposta bisogna escludere subito quella più malevola (che spesso gli altri rivolgono al volontario): “se lo fai si vede che trovi un qualche interesse”. Prescindendo da qualsiasi interesse economico, dato che si è volontari solo gratuitamente, perché quelli che percepiscono uno stipendio altro non sono che lavoratori (benemeriti) che per vivere operano nel volontariato, ci riferiamo a quanti che pur facendo altre professioni prestano il loro tempo e la loro disponibilità ad altri (non familiari) che sono in difficoltà.
Mi rendo conto che in questa premessa sto inserendo numerosi distinguo, quasi a sottolineare che i volontari “puri” sono ben pochi: quelli che lo fanno senza riceverne alcun cespite o che ricevono un contributo spese per poter operare in situazioni ambientali che esigono un minimo di logistica per i viaggi e per la sussistenza.
Detto questo, quindi, prendo in esame solo quelli che possono essere considerati come volontari “puri” e a loro faccio sempre la stessa domanda: “perché lo fate?”
Sul piano psicologico, abbandonate le vecchie considerazioni sull'azione altruista basate su aspetti religiosi (perché per un monaco la ragione rimane esclusivamente nella sua scelta pregiudiziale di operare per mano del suo Dio), rimangono quelli che lo fanno sotto una spinta personale, sia essa religiosa o laica. Queste sono persone che hanno una loro vita familiare normale e scelgono di svolgere anche attività sociali basate sulla relazione con l'altro sofferente per aiutarlo a risolvere o a condividere i suoi problemi. Sono persone che portano sempre il loro zaino ma che offrono, come l'uomo della fotografia, il loro aiuto spontaneamente, senza chiedersi il perché (che è quello che ci piacerebbe sapere!).
Molto spesso costoro non riescono a rispondere alla domanda “perché lo fai?” dato che, imbarazzati, finiscono col dare una risposta più o meno evasiva in termini personali, riferendo più spesso la loro storia a giustificazione, senza però averne certezza interiore. In sostanza fanno opera di volontariato con forza e determinazione, ma non percepiscono le ragioni profonde della loro scelta o almeno non riescono a comunicarle dato che risiedono in un profondo interiore che ha difficoltà ad essere spiegato: “sono fatto così e basta! Perché non è sufficiente come spiegazione?”.
Nell'ultimo decennio, ma già da molto tempo prima facendo cadere i primi studi moderni a Freud, gli interrogativi degli psicologi hanno riguardato diverse cause di inprinting sia sociale che familiare. L'ultima frontiera in termini di studio è legata al senso di colpa. Sì, il volontario sembra essere mosso da un senso di colpa, conscio o inconscio, che è responsabile della sua natura altruistica. La questione si fa interessante perché ci si chiede come il senso di colpa modifica l'individuo sino a farlo divenire volontario? Si sta parlando ovviamente non si sensi di colpa gravi e profondi che annidano di menti malate, ma di incipit che determinano la nascita di un altruismo legato al fare.
Semplificando, il meccanismo dell'altruismo volontario si determina in questo modo: durante l'infanzia nasce in noi il senso del bene e del male determinato dal processo educativo familiare. Susseguente a questa capacità di distinzione prende origine il senso di colpa per aver compiuto azioni che trovano riprovazione da parte dei genitori. È un senso di colpa individuale e di relazione con le persone di riferimento. Da questo input nasce il desiderio di rimediare per ridurre lo stato emotivo negativo del senso di colpa generando con le scuse la sensazione di essere di nuovo “a posto” con la nostra coscienza in quanto accettato con il perdono dalle nostre persone di riferimento. È un meccanismo ben noto che porta bambino ed adulto a cancellare o ridurre il senso di colpa. Nella fase adulta alle figure di riferimento si aggiunge il contesto sociale e come ci si vede nella relazione con gli altri. Nasce l'altruismo percepito, ma non praticato.
Passare dal “ti chiedo scusa” individuale al bisogno di rimediare a un'ingiustizia sociale non provocata da noi è altra cosa e richiede una elaborazione psichica di transfer che non avviene in tutti: molti si sentono altruisti, ma pochi praticano l'altruismo agito. È in questo contesto adulto che entrano in gioco complesse interazioni psicologiche che sono regolate dal vissuto della persona e dalla capacità di questo di permettere di passare all'altruismo agito proprio del volontario. Non sempre ovviamente questo meccanismo di elicitazione si verifica essendo determinata sia dall'educazione avuta e sia dal vissuto personale.
In proposito gli psicologi e gli psichiatri parlano di impronta cerebrale del senso di colpa, vediamo in cosa consiste.
Il senso di colpa si caratterizza per il desiderio di rimediare basandosi sulle azioni commesse (mi sono comportato male). Il senso di colpa si associa all'attivazione della corteccia insulare, una regione coinvolta nell'autocoscienza, nelle relazioni interpersonali. Inoltre il senso di colpa sembra essere legato anche all'attività della corteccia cingolata anteriore ventrale. Questa regione è associata alla capacità di pianificare risposte adeguate, in linea con la definizione di senso di colpa come elemento scatenante di comportamenti riparatori, non necessariamente per colpa dell'individuo, ma come senso di colpa sociale. Dunque è il senso di colpa sociale che supera il fattore individualistico dell'egocentrismo e pongono il volontario pronto ad una azione altruistica. Se ne conclude che il senso di colpa primigenio individuale e poi quello adulto sociale, confermano la sua natura di emozione morale capace di attivare aree cerebrali che pongono il futuro volontario nella necessità di compiere per se stesso azioni altruistiche.
Il senso di colpa, dunque, ha una funzione importante nella vita sociale e di relazione. E imparare a governarlo è un lungo processo che accompagna la nostra crescita personale con i noti mantra quotidiani (con le varianti “è tutta colpa sua” o “non è colpa mia”...).
Come scrive Yves-Alexandre Thalmann in Mind di ottobre 2019, addomesticare il senso di colpa “è un lavoro da equilibrista: si cerca di preservarne l'utilità, limitandone però il potere distruttivo. Al centro di questo lavoro c'è il concetto di responsabilità” E forse a ben vedere è tutto qui il lato buono del senso di colpa.
Ma perché i volontari sono così predisposti al senso di colpa? E come imparano a tenerlo a bada? E ancora, perché ci sono alcune persone particolarmente inclini a farsi travolgere, e altre invece che tendono a manipolare i propri interlocutori sfruttandone i punti deboli? È a tutti questi risvolti di un'emozione diffusa, sgradevole e tuttavia “indispensabile per la vita in società” dice ancora Thalmann.
Forse per capirne qualcosa è bene partire da alcune considerazioni che hanno a che vedere con l'ossessione del controllo, da una parte, e con il libero arbitrio dall'altra. La bilancia dell'azione diviene così la nostra fantasia di onnipotenza (al volontario spesso sfugge la difficoltà del problema dato che non sempre le cose vanno nel modo che vorrebbe, di qui alla depressione per caduta dell'autostima). Proprio per questo alcuni autori mettono in guardia dal sentimento di onnipotenza che può investire i volontari.
Concludendo, il senso di colpa ha una funzione importante nella nostra vita sociale e di relazione. E imparare a governarlo è un lungo processo per nulla semplice che dovrebbe accompagnare la crescita di volontari consapevoli e responsabili. Passa per la capacità di interpretare le circostanze in cui vengono a trovarsi, di valutarle mettendosi nel panni degli altri, di leggere e “addomesticare” le loro emozioni oltre che di dosare le nostre reazioni. Fare il volontario non è facile, è pratica fortemente condizionata dal burnout e necessita di una elaborazione continua della motivazione e della modalità di prossimità con l'altro.
Se da un lato il maggiore rischio del volontario è quello del sentimento di onnipotenza, il maggiore pericolo del contesto sociale è quello di considerare il volontario in termini eroici, mentre è solo una persona che ha fatto scelte vocative personali che lo tengono costantemente sotto giudizio da parte del contesto sociale e della sua coscienza divenuta via via sempre più ipercritica e quindi a pericolo di impotenza depressiva.
scritto da Alessandro Bruni dopo la lettura del dossier sul senso di colpa pubblicato in Mind di ottobre 2019
Attenzione! Il volontariato è contagioso. Un caso di contagio di "perché lo fai" a Roma
Succede che una sera di settembre corri al pronto soccorso del più grande ospedale romano perché un ragazzo arrivato da pochi giorni ha bisogno di cure, succede che questo ragazzo ha evidenti problemi motori e psichici, succede che al triage ci siano di turno due infermiere disponibili e sorridenti, succede che le ore si susseguono tra file ed emergenze e per farle scorrere ti tuffi in caffè e sigarette.
Succede che alle due di notte ti ritrovi in strada e l’unica soluzione che hai per tornare a casa e, prima ancora, riportare al presidio della stazione Tiburtina il ragazzo è chiamare un taxi. Stai per fare il numero e ti fermi, sai che la persona che è con te non sarà gradita, imbacuccata in tre giacconi, con un cappello di lana addosso, non emana un buon odore ed ha l’aria di chi vorrebbe essere altrove.
Succede che chiami lo stesso perché non hai alternative, succede che arrivi il taxi e tu, l’altra volontaria e il ragazzo entrate nell’auto con fare disinvolto ma col timore di dover affrontare una discussione. Durante il tragitto l’autista chiede cosa fosse successo al ragazzo e gli raccontiamo un po’ chi siamo, cosa facciamo e dove sta il presidio. Lasciamo l’ospite alla stazione e proseguiamo la corsa verso le nostre abitazioni.
Succede che due giorni dopo lo stesso autista sente la necessità di contribuire a quello che facciamo e lo fa emettendo un bonifico in favore di Baobab Experience.
Succede che le persone buone esistono, che non dobbiamo provare pudore verso la parola “buono”, che anche se hanno tentato di renderla spregevole con la distorsione “buonista” è ancora una parola e un modo di essere bellissimo.
Succede a Roma, nell’anno 2019 al baobabexperience.org
Non ci hanno strappato tutto, non ci sono riusciti.
segnalato da Alessandro Bruni