Le religioni monoteiste abramitiche si oppongono “ad ogni forma di eutanasia”, così come “al suicidio medicalmente assistito”, perché sono azioni “completamente in contraddizione con il valore della vita umana” e di conseguenza “sbagliate dal punto di vista sia morale sia religioso e dovrebbero essere vietate senza eccezioni”. La società deve assicurarsi “che il desiderio del paziente di non essere un onere dal punto di vista finanziario, non lo induca a scegliere la morte piuttosto che voler ricevere la cura ed il supporto che potrebbero consentirgli di vivere il tempo che gli resta nel conforto e nella tranquillità”.
Sono alcuni dei passaggi della “Dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche sulle problematiche del fine vita” sottoscritta in Vaticano (ndr: sono firmatari rappresentanti delle religioni cattolica, ebraica e islamica. Erano assenti i rappresentanti delle religioni cristiane riformate, tranne per Justin Welby, Arcivescovo anglicano di Canterbury). Il testo ha l’obiettivo di “presentare la posizione delle religioni monoteistiche abramitiche rispetto ai valori e alle prassi rilevanti per i malati in fase terminale, a beneficio dei pazienti, dei familiari, degli operatori sanitari e dei responsabili politici aderenti a una di queste religioni”. Ma anche di “migliorare la capacità degli operatori sanitari” nel comprendere, aiutare e confortare “il credente e la sua famiglia nel momento del fine-vita”, nonché “promuovere comprensione reciproca e sinergie tra i differenti approcci tra le tradizioni religiose monoteistiche e l’etica laica in merito alle convinzioni, ai valori, alle prassi rilevanti per il paziente in fase terminale”.
Nel preambolo si sottolinea che le tematiche riguardanti “le decisioni sul fine-vita” presentano problemi non facili, intensificati da recenti sviluppi, come “i grandi progressi scientifico-tecnologici che rendono possibile il prolungamento della vita in situazioni e modalità finora impensabili”. Purtroppo “la prolungata sopravvivenza è spesso accompagnata da sofferenza e dolore a causa di disfunzioni organiche, mentali ed emotive”. E’ cambiato anche il rapporto medico paziente, non più paternalistico, ma con “maggiore autonomia”. Inoltre le persone “nei paesi sviluppati muoiono in ospedali o cliniche”, “ambienti impersonali e per niente familiari”. Molti pazienti “vengono attaccati a macchinari, circondati da persone indaffarate e poco familiari”, mentre in passato solitamente “morivano a casa, circondate dai loro cari in un ambiente conosciuto e abituale”. C’è poi un “maggiore coinvolgimento di diversi professionisti nel trattamento del paziente in fase terminale” dei media, del sistema giudiziario e dell’opinione pubblica. E infine ci sono sempre meno risorse per portare avanti terapie costose.
La Dichiarazione sottolinea quindi che “la maggior parte delle decisioni sul paziente in fase terminale non sono di natura medico-scientifica”, ma piuttosto “sociali, etiche, religiose legali e culturali”. E i principi e le prassi delle religioni monoteistiche abramitiche “non sono sempre in linea con gli attuali valori e prassi umanistiche laiche”. Si definisce il paziente in fase terminale come “una persona affetta da male incurabile e irreversibile, in una fase in cui la morte” giungerà probabilmente “nell’arco di pochi mesi, malgrado il miglior sforzo diagnostico e terapeutico”.
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Rifiuto dell’accanimento terapeutico, se la morte è ormai imminente
Si chiarisce quindi che “gli interventi sanitari tramite trattamenti medici e tecnologici sono giustificati solo nei termini del possibile aiuto che essi possono apportare”. Per questo il loro impiego va valutato “per verificare se i trattamenti a sostegno o prolungamento della vita effettivamente raggiungono l’obiettivo e quando invece hanno raggiunto i loro limiti”. Quindi “quando la morte è imminente malgrado i mezzi usati”, è giustificato “prendere la decisione di rifiutare alcuni trattamenti medici che altro non farebbero se non prolungare una vita precaria, gravosa, sofferente”.
Sollievo ed assistenza in preparazione alla morte
Ma anche quando il continuare a cercare di scongiurare la morte sembra ormai “irragionevolmente difficile e oneroso”, è necessario “comunque fare quanto possibile per offrire sollievo, alleviare efficacemente il dolore, dare compagnia e assistenza emotiva e spirituale al paziente e alla sua famiglia in preparazione alla morte”.
Rispettare il desiderio del morente che vuole prolungare la vita
Medici e società, prosegue la Dichiarazione, dovrebbero rispettare “l’autentico e indipendente desiderio di un paziente morente che voglia prolungare e preservare la propria vita anche se per un breve periodo di tempo”, utilizzando terapie appropriate. E questo implica “la continuazione del supporto respiratorio, nutrizione e idratazione artificiali, chemioterapia o radioterapia, somministrazione di antibiotici, farmaci per la pressione”. La volontà del paziente può essere espressa in “tempo reale”, oppure tramite direttive anticipate o da un parente prossimo. Nei casi di pazienti praticanti o se i parenti più stretti sono osservanti, “il personale religioso andrebbe consultato”.
Vietare eutanasia e suicidio assistito
Insomma, si legge nel documento, “le questioni attinenti alla durata ed il significato della vita umana non dovrebbero essere dominio del personale sanitario”, che ha la responsabilità di “fornire le cure migliori e la massima assistenza al malato”. Le religioni monoteiste abramitiche, si oppongono quindi “ad ogni forma di eutanasia, che è un atto diretto deliberato e intenzionale di prendere la vita, cosi come al suicidio medicalmente assistito che è un diretto, deliberato ed intenzionale supporto al suicidarsi” perché atti completamente in contraddizione “con il valore della vita umana” e perciò “azioni sbagliate dal punto di vista sia morale sia religioso e dovrebbero essere vietate senza eccezioni”.
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Cure palliative: qualità di vita anche quando non esiste una cura
Si chiede poi, per ogni paziente in fase terminale, “la migliore e più completa assistenza palliativa, possibile: fisica, emotiva, sociale, religiosa e spirituale”. Si ricorda che le Cure palliative “hanno fatto grandi progressi” e vanno incoraggiate, in quanto “mirano a garantire la migliore qualità di vita ai malati di una malattia incurabile e progressiva, anche quando non possono venire curati”. Esprimono poi “la nobile devozione umana del prendersi cura l'uno dell'altro, specialmente di coloro che soffrono”. Per questo i leader religiosi incoraggiano ”professionisti e studenti a specializzarsi in questo campo della medicina”.
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scritto da Alessandro Di Bussolo, pubblicato in Vatican news del 28 ottobre 2019
sintesi di Alessandro Bruni dall'articolo originale che è possibile leggere aprendo questo link