Leggo con immenso ritardo queste pagine di Le Nius a firma di Luca De Marchi e non posso non essere colpito. Non tanto per una storia di migrazione italiana non nota, ma per storie dense di una umanità che gli ultimi avvenimenti socio-politici hanno fatto dimenticare. Le ripropongo in sintesi (ma chi le vuole leggere in originale apra questo link) perché siano motivo di riflessione, come lo sono state per me. (Alessandro Bruni)
Tra fine Ottocento e inizio Novecento milioni di italiani sono emigrati all’estero, molti in Argentina. Prima che le loro storie finiscano per essere dimenticate, sono andato dall’altra parte dell’oceano e ne ho raccolte alcune, che verranno pubblicate con cadenza mensile su Le Nius in questi ultimi mesi del 2019. Qualcuno leggerà delle storie di vita intense, qualcuno ci troverà dei collegamenti alle migrazioni di oggi, altri ci troveranno delle differenze, altri ancora apprezzeranno i valori del nostro paese. (Luca De Marchi)
Perché in Argentina?
Un “Annunzio ufficiale” diffuso nel XIX secolo invitava ad andare in Argentina perché «nessun paese del mondo offre più vantaggi per gli agricoltori. Clima temperato e sano, terre a basso prezzo e fertili, facili da lavorare; pianure vastissime, qualsiasi tipo di grano a prezzo modico come in nessun’altra parte; grandi linee ferroviarie; reti di comunicazione quasi quotidiane con Europa; istituzioni uguali a quelle statunitensi, ma più liberali per gli stranieri, che possono essere proprietari senza compromettere la propria nazionalità».
Generalmente gli italiani erano indecisi tra Buenos Aires e New York, due città che ai loro occhi si sarebbero contese il titolo di leader del mondo. L’Argentina in particolare era considerata il granaio del mondo: dava da mangiare all’Europa durante le guerre e in occasione della guerra civile spagnola inviò al paese tonnellate di vestiti e medicinali in supporto alla popolazione. Per la sua trasformazione industriale si resero necessari uomini che portarono a favorire leggi per l’immigrazione.
Nella Costituzione argentina del 1853 all’articolo 25 si legge: «Il governo federale incoraggerà l’immigrazione europea; non potrà restringere, limitare o gravare con alcuna imposta l’ingresso nel territorio argentino degli stranieri che abbiano per oggetto coltivare la terra, migliorare le industrie, introdurre e insegnare le scienze e le arti».
In Italia non si cercò di arginare l’emigrazione perché venne vista come uno sbocco alla protesta dei sempre più forti sindacati. Quattro milioni di italiani erano disoccupati e i primi governi della Repubblica videro quindi nell’emigrazione una necessità vitale: come riportato nella pubblicazione I Congressi nazionali della Democrazia Cristiana, il leader democristiano Alcide De Gasperi invitò gli italiani a “riprendere le vie del mondo”.
Se da una parte l’emigrazione liberò il paese di un elevato numero di cittadini, l’emigrazione ne accentuò tuttavia la crisi: gli immigrati italiani in Argentina producevano grano più economico di quello italiano e lo esportavano nella stessa Italia, costringendo sempre più persone a partire.
Italiani in Argentina: chi partiva e cosa trovava
Fu un’avventura di circa tre milioni di persone, famiglie, giovani, per il settanta per cento uomini. Molti partirono soli e una volta installati trasferirono il resto della famiglia. Andavano a fare l’America, ma appena sbarcati si trovarono soli, abbandonati in una terra straniera e immensa, tutta da costruire, senza luci e senza strade.
I migranti che arrivarono in Argentina nella maggioranza dei casi raggiungevano amici o familiari già inseriti nel paese. In altri casi arrivavano tramite imprese di colonizzazione con la speranza di appropriarsi di qualche terreno. L’Hotel degli Immigrati era una struttura che dava alloggio fino al momento in cui il migrante veniva raggiunto dall’amico o dal familiare o finché non trovava lavoro o un alloggio. Nell’Hotel venivano offerti cibo, letto e un’assistenza nel tempo sempre più completa: controlli sanitari, supporto burocratico, nella ricerca del lavoro e nello studio dello spagnolo.
La storia di Maria Pontoni di Ushuaia
Ushuaia, oltre a essere la capitale della provincia Terra del Fuoco e Antartide argentina, è la città più australe del mondo e, per gli psicologi, un luogo inadatto alla vita umana e con il maggiore tasso di suicidi del paese.
Isolata dalle montagne che la circondano, è infatti battuta dai venti polari e se d’estate le giornate durano fino alle undici di sera, d’inverno il sole quasi non si vede.
«Nonostante il clima rigido la città si sta espandendo sulle colline» mi spiega Maria Pontoni, una signora di 78 anni che vive a Ushuaia insieme al marito, ai figli, ai nipoti e pronipoti.
È una delle poche rimaste dei primi italiani arrivati in città negli anni quaranta. «Ushuaia non è una città per famiglie» ammette porgendomi una tazza di tè «qui si lavora o si viene abbandonati».
Nata a Carbonia, nel sud della Sardegna, Maria trascorse l’infanzia a Fossato di Vico, in provincia di Perugia. Tornò in Italia una sola volta, nel 1995, quando incontrò una zia senza neanche riconoscerla: «scoppiai in lacrime e mio marito disse “è tutto come me lo raccontasti”».
Orlando, il padre di Maria, lavorava in miniera, visse la guerra e tornò a casa con molte ferite e gravi danni all’udito. «Lavoro non ce n’era» racconta Maria «io e mia sorella aiutavamo con la raccolta del grano».
Fu così che la famiglia maturò la scelta di partire. «I nonni piansero, ma compresero che ci stavamo sacrificando per il nostro futuro» racconta. La madre non aveva soldi e in Italia chiese un prestito. «Fu la prima cosa che risolse una volta in Argentina e questo mi riempie di orgoglio».
Il primo a partire fu il padre Orlando, che arrivò a Ushuaia il 20 ottobre del 1948. Maria arrivò un anno dopo, il 28 agosto 1949, sulla barca Giovanni C, cinquecento persone e un mese di viaggio.
Volevo mettere nel baule tutte le mie cose, ma dovetti scegliere quelle essenziali. Così ci misi le fotografie dei nonni.
Che infatti Maria non rivide più. Maria non sapeva che sarebbe finita a Ushuaia, né sapeva dove si trovasse. Quando arrivò ricorda bene il padre che le venne incontro dandole del cioccolato: «quello che in Italia non ho mai potuto regalarti» le disse.
Perché questa famiglia fu mandata in un posto come Ushuaia? Quello di Perón fu un vero e proprio esperimento. Il presidente argentino aveva appena chiuso il carcere coloniale voluto dagli inglesi a Ushuaia e volle popolare la città. Chiamò allora Carlo Borsari, imprenditore bolognese, e gli ordinò un’impresa definita titanica: dare casa a oltre seicento immigrati italiani.
Ushuaia era una città scomoda da vivere e isolata, non aveva campi da coltivare e sopravviveva grazie alle importazioni. Borsari decise di installare un’industria per la lavorazione del legno, presente in quantità grazie ai numerosi boschi. Dopo due anni l’impresa fallì e licenziò gli operai.
«Non mantennero le loro promesse» afferma Maria «ci avevano promesso lavoro per diversi anni, ci avevano promesso delle terre e se agli italiani non dai una terra, loro se ne vanno». Le condizioni di lavoro non erano facili, le attrezzature erano antiquate, venticinque furono i bambini ricoverati nell’ospedale della marina per denutrizione.
Gli immigrati senza più un lavoro si dovettero spostare in altre zone meno deserte dell’Argentina, altri tornarono in Italia. «Alcuni italiani se n’erano già andati prima perché non riuscivano ad ambientarsi per le difficili condizioni di vita» aggiunge Maria. Anche il padre di Maria pensò di tornare in Italia, ma fu la figlia a pregarlo di non partire: «Cambiare due volte era difficile» spiega. La madre cominciò a lavorare come domestica, ma spesso al posto dei soldi veniva pagata con sedie, tavoli e bicchieri.
Maria ripete spesso la parola “sacrificio” e pensando a quello dei suoi genitori le si inumidiscono gli occhi. «Non mi mancò mai nulla, mamma si toglieva il pane di bocca per darlo a me» spiega.
I primi anni a Ushuaia non fu facile ambientarsi: la città contava un migliaio di abitanti, metri di neve bloccavano la porta di casa ogni mattina, ma soprattutto Maria dovette subire diversi episodi di discriminazione a scuola: «Occupavo lo spazio dei miei compagni e mi dicevano che ero venuta a rubare loro il lavoro» racconta, mi dicevano che ero una “gringa muerta de hambre” [un’italiana morta di fame, ndr]». Per fortuna la maestra si rivelò in gamba: «Uccisi i loro stupidi insulti con l’indifferenza, si stufarono e alla fine mi feci degli amici» conclude.
Oggi Maria vende lasagne all’italiana per la comunità di Ushuaia ed è stata presidente della Società Italiana della città. «Sono italiana nel sangue, italiani sono i valori che mi ha trasmesso la mia famiglia» afferma con sicurezza.
Gli italiani tuttavia non vengono a conoscere le loro famiglie in Argentina e Maria non si spiega perché: «quando sono tornata in Italia ho avuto l’impressione che il tema della famiglia si stesse perdendo, anche se è la cosa più importante che abbiamo». Un legame che Maria, per il fatto di avere lasciato il suo paese, oggi sente più forte. «Non a tutti è andata bene come a me» ammette.
«I migranti sono di diversi tipi: ci sono quelli che vanno spronati e quelli che invece riescono ad arrangiarsi» spiega. «Se dovessi dare un consiglio a una persona che sta per emigrare, le direi che nulla è gratuito e che tutti abbiamo iniziato da zero. Si può fare, ma bisogna imparare a sopportare le ingiustizie. Devi lavorare, essere umile e solidale».
Quando mi dice queste parole, mi viene spontaneo chiederle cosa direbbe a chi invece i migranti li ospita. «A loro consiglierei di riflettere sulla propria concezione di “spazio”. Bisogna imparare a dare spazio. Se ognuno mettesse un granello di sabbia, senza pensare all’ego e pensando solo all’altro, saremmo molto migliori, a volte con pochissimo possiamo fare molto per un’altra persona».
Maria parla con la consapevolezza che il mondo sta cambiando più velocemente di lei. «Tutti i giorni per tutta la vita si può imparare qualcosa di nuovo» afferma «l’insegnamento più grande che ho imparato da questa vita è dare valore alle piccole cose e non pretendere molto, se non la tranquillità nella famiglia».
scritto da Luca De Marchi, pubblicato in Le Nius dal 12 settembre al 20 dicembre 2019
sintesi di Alessandro Bruni