Eppure c’è stato un tempo in cui di accoglienza eravamo capaci. Pensavo a questo qualche giorno fa leggendo del ragazzo ritrovato nel carrello d’atterraggio del Boeing 777, allo Charles de Gaulle di Parigi, e avendo in mente il libro che mi aspettava sul comodino.
Del ragazzo ormai alcune cose le sappiamo: il nome, Ani Guibahi Laurent Barthelemy, e l’età, 14 anni, oltre al paese d’origine, Costa d’Avorio, che sin dal principio conoscevamo. Ci ha pensato mirabilmente Roberto Saviano a darci un’idea di che cosa dev’essergli successo in quella prigione a 9000 metri da terra e oltre 50 gradi sotto zero, e ci ha ricordato che non è il primo episodio.
Ne hanno scritto anche altri. Racimolando, vedo che a Londra, nei pressi dell’aeroporto di Heathrow, nel 2012 e nel 2015 sono stati trovati due corpi senza vita sui tetti di due condomini e la polizia aveva ritenuto fossero caduti da aerei in volo. Prima ancora, 29 luglio 1999, due ragazzi, Yahuine Koita e Fode Tounkara, 14 e 15 anni, dalla Guinea si erano nascosti nel carrello di un aereo per arrivare a Bruxelles. Portavano con sé una lettera all’Europa che vale ancora.
“…Signori membri e responsabili dell’Europa, è alla vostra solidarietà e alla vostra gentilezza che noi gridiamo aiuto in Africa. Aiutateci, soffriamo enormemente in Africa, aiutateci, abbiamo dei problemi e i bambini non hanno diritti…in Guinea, abbiamo molte scuole ma una grande mancanza di istruzione e d’insegnamento, salvo nelle scuole private dove si può avere una buona istruzione e un buon insegnamento, ma ci vogliono molti soldi, e i nostri genitori sono poveri, in media ci danno da mangiare. E poi non abbiamo scuole di sport come il calcio, il basket, il tennis, eccetera. Dunque in questo caso noi africani, e soprattutto noi bambini e giovani africani, vi chiediamo di fare una grande organizzazione utile per l’Africa perché progredisca…”.
Lascio da parte i commenti vergognosi sui social. Un giornalista che non ricordo, subito dopo quest’ultimo ritrovamento, ha scritto pressappoco: “Vabbè, era già successo di trovare degli adolescenti, ma proprio un bambino, che scandalo!”. Ora che siamo aggiornati – anche Laurent aveva 14 anni – dobbiamo metterci tranquilli? Viene da domandarsi dove posizioniamo l’asticella dell’orrore per decidere cosa è assimilato e cosa può ancora commuoverci.
Dopo un lungo periodo di sconvolgimenti politici (2000-10) e il deferimento dell’ex presidente Laurent Gbagbo (2000-2010) di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja, la Costa d’Avorio, pur in crescita, resta uno dei paesi più poveri della regione. Ricavo dall’Atlante dei minori stranieri non accompagnati edito da Save the Children nel 2017:
“La mancanza di investimenti nel sistema sanitario per tutti gli anni del conflitto e l’estrema povertà hanno contribuito alla percentuale molto alta di bambini al di sotto dei 5 anni di età malnutriti (il 38%) e ad un tasso di mortalità infantile che si attesta a 93 morti su 1.000 nati vivi. Solo il 25% dei bambini frequenta la scuola e tantissimi sono vittime di abusi e violenza. Un bambino su quattro nella fascia d’età che va dai 5 ai 14 anni è costretto a lavorare, la maggior parte provengono dalle zone rurali più povere del Nord e del Centro della Costa d’Avorio”.
Così ritorno al romanzo che mi aspetta sul comodino. È Il treno dei bambini di Viola Ardone, mi sento di consigliarlo, per quello che dice e per come lo dice. Narra di quando, nell’immediato dopoguerra, dal sud vennero organizzati treni di bambini e ragazzi che sarebbero stati accolti dalle famiglie del nord Italia per un intero anno scolastico. La voce narrante è quella di uno di loro, Amerigo Speranza, 7 anni. Il suo italiano sporcato di napoletano, il suo sguardo limpido ci aiutano ad immaginare cosa può essere stato per un bambino quel viaggio preparato, nei vicoli, con le peggiori previsioni: è un’iniziativa dei comunisti e loro i bambini li mangiano, ci fanno il sapone, vi porteranno in Siberia, vi cuoceranno nei forni, vi daranno i lavori forzati…
“Non è vero ma ci credo”, diceva Totò. I bambini lo stesso, partiti con il fiato corto. Abbigliati dal Pci con cappotti nuovi che alla partenza del treno, d’accordo con le mamme, lanciano dal finestrino perché vengano passati ai fratelli, che tanto, se vanno a star bene gliene daranno un altro, se finiscono sulla graticola i cappotti non servono a niente.
Amerigo avrà fortuna, troverà una famiglia allargata e accogliente che gli darà la possibilità di studiare e di trovare la sua strada. La passione per la musica, coltivata a Napoli sedendosi ad ascoltare sui gradini del conservatorio tra una marachella e un lavoretto imposto dalla mamma e dal suo innamorato contrabbandiere, potrà svilupparsi finalmente, quando “il babbo del nord”, di mestiere liutaio o giù di lì, gli confeziona il suo primo violino.
Amerigo ritorna, passato un anno, e accanto alla mamma (non ha un papà) non si riconosce più. Quello che sceglie non è il benessere ma l’affetto, la possibilità di essere riconosciuto e visto dagli adulti. Se “ognuno cresce solo se sognato”, come scriveva Dolci in una celebre poesia, Amerigo solo nella nuova famiglia si è sentito di appartenere al sogno di qualcuno. Di qualcuno che, pur senza legami di sangue, desiderava “la sua esistenza, la sua libertà, il suo sviluppo”.
Questo non gli risparmia le nostalgie, i conflitti interni che derivano dall’avere scelto per sé recidendo radici incolpevoli della propria inadeguatezza, e il bisogno di camuffarsi che non lo abbandona mai, neppure a cinquant’anni, quando ritorna a Napoli dopo la morte della madre e a chi gli chiede inventa identità e storie diverse ogni volta, sia mai che quelle reali risultino della misura sbagliata.
“Sono stato aiutato, è vero, ma ho provato anche tanta vergogna”, si confida Amerigo adulto con l’ormai anziana Maddalena, la partigiana del Pci che il treno dei bambini l’aveva organizzato. “L’accoglienza, la solidarietà come dici tu, ha anche un sapore amaro, per entrambe le parti, per quelli che la danno e per quelli che la ricevono. Per questo è così difficile. Io sognavo di essere come gli altri. Volevo che dimenticassero da dove ero venuto e per quale motivo. Ho avuto molto, ma il prezzo l’ho pagato per intero, ho rinunciato a tanto. Pensa che la mia storia non l’ho raccontata mai a nessuno”.
Sarà un altro bambino a riconciliarlo col passato. Il nipotino, il figlio del fratello nato alla mamma mentre lui era al nord, che ha i genitori agli arresti per una condanna qualsiasi, forse droga ma non è detto in chiaro. Gli mostra quella che poteva essere la sua vita e per fortuna non è stata – Amerigo è diventato un affermato violinista – ma c’è anche il ritorno all’infanzia.
Tra il proposito di ignorare il nipote e quello di portarlo con sé su cui si dibatte per alcuni giorni – che è come dire tra rifiutare la propria storia e sdraiarcisi sopra fino ad annullarsi – il protagonista deciderà di fare lo zio, come gli compete. E anche se con l’adozione di tanti anni prima il suo nuovo cognome, ugualmente significativo, è ormai Benvenuti, porterà ancora un poco di Speranza.
scritto da Elena Buccoliero, pubblicato anche in Azione nonviolenta del 16 gennaio 2020