E dunque, come si sta chiusi in casa? Beh, prima di tutto una casa bisogna avercela, come sanno bene le persone più marginali e quanti si impegnano accanto a loro. Multe e denunce ai senzatetto di cui abbiamo avuto notizia in diverse città italiane paiono un accanimento che non ha proprio nulla di terapeutico.
Al più sono curative per noi, se ci aprono gli occhi sull’insensatezza di diseguaglianze che corrodono i diritti fino all’osso, tanto da lasciare alcuni più di altri indifesi davanti alla pandemia.
In questi tempi inediti piace affratellarsi, sentirsi uniti. Siamo tutti sulla stessa barca, continuamente si ripete, ma tutti riguarda in realtà un insieme solo un po’ più ampio del consueto noi. Ha come base i nostri familiari, amici, colleghi e conoscenti ma ora accoglie – questo ci fa dire tutti – ignoti abbastanza simili a noi nei quali per la prima volta ci riconosciamo. Un’espansione di quel fenomeno che sperimentavamo già, in coincidenza di eventi speciali o emozioni stravolgenti, e portava alcuni a confidarsi intimamente con sconosciuti compagni di stanza in ospedale, ignoti concorrenti dello stesso concorso. Riguarda insomma nostri simili, persone come noi mediamente in difficoltà, con legami mediamente paragonabili a quelli che proteggiamo, mediamente come noi indaffarati a tenere insieme il quotidiano.
In questo tutti mancano ancora tanti, quelli che in una ipotetica curva di Gauss si posizionano agli estremi, o per enormità di privilegi o perché incurvati dalla fragilità. Per ricordare i secondi rinvio ad Avvocato di strada con il suo appello “Io vorrei restare a casa. Ma se una casa non ce l’ho?” e a Caritas, per indicare almeno due tra le realtà del volontariato più rilevanti e attive, mentre i servizi pubblici stanno, loro pure, silenziosamente compiendo il proprio dovere.
Ma poi, anche quando una casa è certa, non è scontato sia un luogo sicuro per chi vi abita. Dal virus forse sì, ma a volte c’è un pericolo interno. Se già è difficile per una vittima di violenza – poniamo che sia una donna – rivolgersi alle forze dell’ordine, a uno sportello d’ascolto o a un servizio del territorio, ora dev’essere veramente arduo. Se già è titubante una donna che deve farsi refertare un occhio nero nell’ennesima lite domestica, molto di più tremerà oggi: per il rischio sanitario, per la consapevolezza di aggravare con una piccola emergenza un’altra già immensa, per la sensazione di non avere alternative. Come tanta parte del terzo settore i Centri antiviolenza non hanno interrotto il loro intervento, anche se per quanto possibile lo hanno riconvertito, come tutto in questo periodo, in relazioni a distanza. Un aggiornamento lo ricaviamo dal sito della Rete D.I.Re., quella che da nord a sud riunisce centinaia di Centri in tutta Italia.
Una strada più impervia ancora mi appare quella dei bambini. Per loro chiedere aiuto in modo autonomo può essere impossibile se non c’è un adulto esterno al nucleo familiare che intravvede qualcosa che non va, e in queste settimane tutti i possibili sguardi esterni sono oscurati. Niente insegnanti, allenatori, educatori, animatori. Niente nonni e zii, o ridotti al minimo. I bambini sono affidati ai loro genitori e (quasi) basta, può essere bellissimo ma non sempre è vero. Molti ricorderanno la culla abbandonata da una giovane madre alla Stazione Termini di Roma, poche settimane fa. Ora immaginiamo che quella donna sia invece costretta a tenere con sé una bambina vissuta come ostacolo in una condizione per lei insostenibile, non importa se oggettivamente o soggettivamente. Che cosa può accadere? E quali chance ha la bimba nella sua culla per proteggersi?
Un rimedio non ce l’abbiamo, probabilmente, se non continuare collettivamente a garantire prossimità, tentare di sgravare il peso della cura particolarmente nelle situazioni più sofferenti ammesso che riusciamo ad arrivarci. Il non riuscirci dovrebbe almeno darci la misura di quanto il lavoro parzialmente sospeso sia invece fondamentale per la sicurezza di tutti noi, e spero non siano necessari eventi drammatici a carico di donne e bambini che vivono in famiglia – ma anche anziani, o disabili, mondi ugualmente importanti che io conosco poco –per rammentarcelo.
Stare in casa è vissuto con difficoltà anche da tante e tante persone che non devono fronteggiare una relazione violenta, e neppure rischiano di perdere il lavoro o la sicurezza economica, ma lo avvertono come limite alla propria libertà. Qualche giorno fa, prima che il Governo fosse costretto a trasformare le sollecitazioni alla responsabilità individuale in divieti con rilevanza penale, ho ascoltato un’improbabile influencer – una bella ragazza, probabilmente, prima delle numerose plastiche facciali – sbandierare l’intenzione di uscire, incontrare, divertirsi, insomma fare come se niente fosse, “almeno fino a che non si ammalerà gravemente una persona giovane e sana”. Penso a lei ma non era la sola a opporsi, abbiamo continuato a vedere locali stracolmi di gente fino a che non è stata imposta la chiusura, e allegri ritrovi nei parchi in barba a tutte le distanze di sicurezza.
È davvero un paradosso questo tempo, in cui stare soli diventa facile e logico quanto più teniamo alle nostre relazioni. E diciamo a noi stessi: scelgo di stare in casa e non solo per proteggere me, ma per i miei genitori che sono anziani, per quell’amica che è appena uscita da una grave malattia ed è fragile, per gli operatori sanitari che hanno responsabilità immense e sarebbe un grosso guaio se dovessero anche solo fermarsi per due settimane di quarantena.
Per una volta non possiamo sperare di far confluire tutto il male in un nemico esterno per rinforzarci nel solito noi contro di loro. Prima di rassegnarci ci abbiamo provato, non dobbiamo dimenticarlo, le ultime bottigliate le hanno prese persone con tratti asiatici, da dovunque provenissero, come fossero individualmente responsabili della propagazione di un virus in questo mondo globale nel quale, come italiani, solo pochi giorni dopo abbiamo dato un contributo non indifferente. Ma ora scelgo di fermarmi perché mi rendo conto che il male posso propagarlo io, anche se non voglio, e forse – si discute sugli asintomatici – perfino se non lo so e non lo immagino neppure.
Poiché questo viviamo, dobbiamo vigilare su di noi per non fare del male incominciando dalle persone a cui teniamo di più, dalle relazioni che sono nostra casa, quelle che noi abitiamo e che vivono in noi, anche quando gli indirizzi postali non coincidono.
scritto da Elena Buccoliero, pubblicato anche in Azione nonviolenta del 18 marzo 2020