AA.VV. L'educazione. L'arte di coltivare la vita. L'altrapagina Editore. 2019
Un libro prezioso, scritto a più mani da autori legati dalla medesima missione: fornire una dimensione alla relazione educativa che non sia solo mera conoscenza, ma capacità di dare senso compiuto alla costruzione creativa del sapere individuale.
È un libro rivolto soprattutto a insegnanti e genitori che tratta dell'età evolutiva, quando la dimensione formativa pedagogica più si lega con la costruzione identitaria, ovvero a quell'età nella quale si pongono a confronto, e a critica, i modelli della prima infanzia e si costruisce la dimensione interiore che lega l'essere se stessi nella relazione con gli altri, con il mondo.
Gli autori sono “studiosi d'aula” che hanno posto ad analisi il loro sapere teorico con il rapporto della “persona studente” esplorando la dimensione relazionale individuale del lavoro educativo vissuto ponendosi di fronte al singolo alunno e non agli alunni nel loro insieme, alla singola persona da formare e non al foglio bianco dello scrivere e alla bibliografia sull'argomento.
Francesco Tonucci, Marco Lodoli, Gianni Vacchelli, Roberto Mancini, hanno ragionato sull'apparato scolastico che troppo spesso ha perso l'incanto della passione divenendo un deprimente fatto di osservanze burocratiche e di sistema istituzionalizzato con una centralità tutta italica di stampo gentiliano che risale a tempi di non considerazione del sapere esperienziale.
Nel libro gli autori non pongono a critica il corpo insegnante, ma ne constatano le derive non metodologiche di disincanto lontano dalla vocazione rendendolo esercizio lavorativo passivo. Questa situazione è strisciante, certamente non generalizzata (esistono ancora molti insegnanti motivati), per la quale è difficile trovare colpe (individuali, di sistema?), ma che determinano inevitabilmente una carenza di passione nell'insegnamento. E si sa che la mancanza di coinvolgimento personale da parte dell'insegnante genera pari disinteresse personale da parte dello studente. L'insegnante non trasmette solo la conoscenza, che è fatto tecnico, ma la passione alla conoscenza che è fatto vocativo. Difficile in queste condizioni di certa scuola riuscire a stimolare uno studente alla passione vocativa dell'apprendere.
Gli autori hanno ben chiaro il passaggio ad altra dimensione pedagogica dove il sapere e la conoscenza si esprimono nella centralità della persona-studente e del suo vissuto, scolastico e familiare. Non a caso, anzi in modo illuminante, Francesco Tonucci e Marco Lodoli fanno riferimento ad una scuola inclusiva ed esclusiva, sottolineando quanto ancora oggi la scuola sia incomprensibile per molti ragazzi. Per fare questo percorso partono dalle esperienze di Gillian Lynne, Mario Lodi, Lorenzo Milani e portano a evidenziare al lettore quanto la scuola sia, per sua tradizione, non per vocazione, ancora escludente. Ovvero non si compie più, come in passato, la volontà di selezionare “i migliori”, ma si determinano per una congerie di fattori intra- e extra-scolastici che seleziona gli “adatti” dai “quasi adatti” e dai “non adatti” a proseguire la formazione. Di qui al tremendo tasso di abbandono della scuola e dell'università italiane creando un vero e proprio boomerang per la società futura di cui la scuola è almeno in parte corresponsabile.
Possiamo certamente dire che la scuola non è totalmente responsabile di questa selezione sociale impropria, che è massimamente dovuta al contesto sociale in cui studenti e scuola si trovano a vivere. Certo è che, se la scuola, di ogni ordine e grado, oggi può dirsi non unica colpevole, non può nemmeno dirsi innocente, dato che la maggioranza degli alunni non la riconosce come “luogo”, ma piuttosto come “non luogo”. Manca l'appartenenza, il sentirsi individualmente accolti e per questo la vivono con disagio e distacco, senza passione. Una scuola così vissuta non corrisponde e non risponde al suo fine.
Tra insegnanti e famiglie c'è un tema delicato e oggetto di confronto e di dibattito acceso che fa nascere una sorta di gara per stabilire di chi è la colpa di questo stato di cose: la società, la famiglia, gli alunni, la scuola, gli insegnanti? Un peana che finisce col diventare un gioco a scaricabarile che porta sempre a pensare che la colpa sia di altri. Di fatto questa situazione non dovrebbe essere affrontata sul modello degli uni contro gli altri, ma con riflessione integrata dove ognuno deve cercare di rendere collettiva la modalità di intervento e soprattutto di rifondazione ricordando che educare significa appassionarsi e che si educa non con quello che si dice, ma con quello che si è.
Più complesso, ma altrettanto utile, è l'intervento di Gianni Vacchelli dove si sente il peso della cultura scolastica storica che, però, viene totalmente rivista e ri-interpretata alla luce del pensiero moderno, soprattutto di Raimon Panikkar. Egli constata la frantumazione dell'uomo alfabetico, del pensare attraverso strutture complesse di logos, ma ne coglie il pensiero operazionale de-strutturalizzante sul piano individuale nel quale efficientismo, merito, burocrazia e ultimamente politica scolastica, finiscono col depauperare non solo gli studenti ma gli stessi insegnanti.
Vacchelli vede tutto questo e ne propone una dimensione più olistica di umana infinitudine cogliendo il primato della educazione alla vita, che combatte la cattiva astrazione quantificante coltivando la centralità della persona umana e la capacità di creare relazioni, quindi non imperniata sulle competenze e sulla competizione. A questo riguardo, non vede la critica alle competenze in radicale e sterile dualismo con le conoscenze. Un aspetto ovvio, ma non praticato, sul quale bisogna intendersi: non è possibile far studiare violino ad uno studente che non ama la musica, bisogna prima educarlo alla musica e al piacere dell'ascolto e della declinazione della musica in tutte le sue forme soprattutto per il piacere di esserne trasportati. Sappiamo che vale più la lezione di un pianista che spiega cosa sa fare e cosa sa esprimere con Vivaldi (o Einaudi o un moderno rapper) per far innamorare un ragazzo più di mille ore di solfeggio.
Un discorso molto più ampio lo compie Roberto Mancini trasportandoci verso un futuro possibile, o una fantascienza realizzabile, con il suo articolo titolato “Educare è liberare”, un titolo che subito affascina e che ci fa ricordare quanto bisogno di libertà ha l'uomo contemporaneo a tutte le età. Mancini svolge il tema come se il lettore non appartenesse a qualche specifico fenotipo sociale, che tanto caratterizza questa nostra società frammentata non dal multiculturalismo o da classi economiche, ma dall'instaurarsi di caste sociali differenti per linguaggi, vestiti, ornamenti, ecc. che frammenta la società in caste di gruppi sempre più numerosi ed escludenti. Basti pensare alla distinzione tra digitali nativi e non nativi o ultras di calcio o appartenenza politica per scelta simbolica. Tutte manifestazioni di desiderio di appartenere, di essere protetti da un cerchio magico che ci accasa e ci schiavizza.
Di fatto Mancini porta al ragionare sul senso di appartenenza globale, umano: proprio il contrario della frammentazione sociale che viviamo e che ha come seme comune la distinzione dagli altri in fenotipi sociali basati sulla esclusione con l'odio verso gli altri più che sulla appartenenza a valori universali (se la mondialità è valore inclusivo, l'italianità lo è molto meno, la regionalità ancora meno … sino al razzismo che è tipica espressione di esclusività: io ti escludo perché tu non sei come me). Mancini sviluppa questo argomento per brevi capitoli la cui sequenza è già di per sé significativa: Vedere la generazione nuova, Promuovere l'integrità, Esperimenti con la verità, Superare il principio del potere, La transizione alla coralità.
Personalmente sono stato colpito da due capitoli: Promuovere l'integrità e La transizione alla coralità. Mi hanno colpito appunto sul piano del mio vissuto personale e del mio essere oggi persona. In riferimento all'integrità egli sottolinea come nel cammino educativo sia sempre implicato il riconoscimento del mondo e dalla capacità di lettura della realtà ben oltre il valore economico o di potere. Il riconoscimento inizia con l'educazione all'accoglienza e all'ascolto nell'adulto e nel giovane.
È necessario non solo riempire le giornate di cose da fare e conseguentemente imporre ai giovani una sequenza di impegni giornalieri ormai standardizzata di scuola e attività più o meno ludiche (spesso con enfasi competitiva, come sport, danza, musica, ecc., dove il percorso formativo è costellato di valutazioni), facendo così mancare nel corso della giornata il tempo alla riflessione, all'ozio creativo, al sapersi inventare un'attività autonoma, al gioco di squadra e alla relazione con l'altro. Si sa che le attività anche solo sportive che si svolgono senza competizione reale hanno ben poca frequenza. Infatti l'imparare a tessere, a dipingere, a riparare le biciclette, a saper leggere un quadro, tanto per fare esempi banali, hanno ben poco seguito. Insegnare ad essere competitivi in modo maldestro porta al confronto discriminatorio e alla violenza.
Mancini sottolinea che bisogna insegnare ai nostri figli ad ascoltare e che noi si impari ad ascoltarli senza reprimerli, con la parola e la relazione quotidiana per rendere la famiglia “luogo” di appartenenza. Questo perché l'individualizzazione vera è azione maieutica vissuta nel quotidiano che aiuta ciascuno nella scoperta della propria vocazione e nella propria capacità di partecipare positivamente alla vita del mondo. È inevitabile che l'educazione passi attraverso la scuola dell'esperienza di relazione, che implica la presa di contatto con se stessi e con le molteplici alterità del reale, la riflessione, il dialogo, il racconto, la fantasia, la manualità e la corporeità.
L'altro capitolo di Mancini che mi ha colpito è dedicato alla transizione alla coralità. Argomento sempre discusso con alterne fortune, ma che oggi ha un valore molto pratico. Coralità è sinonimo di populismo o di partitismo? No, è l'esatto contrario. Il coro a cui si riferisce Mancini è quello che non esclude nessuno. Siamo una sola umanità nel mondo, una unica specie, con un unico genoma, sin da quando l'uomo di Neanderthal si è estinto. Coralità è parola universale che si esprime con il contatto personale dove si recupera il senso della realtà priva dalle sovrastrutture del pregiudizio. È parola legata alla condivisione la cui azione sopprime la competizione, l'ansia del successo, la paura di perdere. A queste si legano la giustizia e la corresponsabilità. Educare a vivere il mondo significa dare senso a coralità, condivisione, giustizia e corresponsabilità.
Esiste un libro di testo scolastico che insegna tutto questo? No, perché è l'insegnante che le esprime e le modula attraverso la sua persona, attraverso le sue parole, attraverso le sue valutazioni, attraverso l'amore con il quale fa il proprio lavoro. Le ultime parole di Mancini sono: La sapienza educativa sa che il futuro ha un nome, si chiama coralità. Parole che non valgono solo per gli insegnanti, ma soprattutto per i genitori affinché siano capaci di affrontare il loro compito con una competenza umana, ascoltando per farsi ascoltare, impegnandosi per rendere impegnati i figli, essere giusti per educare alla giustizia, essere corali per educare all'accoglienza.
scritto da Alessandro Bruni