Abbiamo bisogno di sentirci parte di una comunità, o di vedere confermata questa appartenenza. Cerchiamo di costruire comunità dal basso perché è il nostro agire politico e perché convinti che solo attraverso il confronto il pensiero e l’analisi possono evolvere, cercare nuove soluzioni, strumenti di lotta inediti; dare luogo a soggetti collettivi sempre più inclusivi che sappiano imprimere una dimensione trasformativa al dissenso.
L’autoisolamento da Covid19 ci porta a considerare e ad esplicitare l’ovvio; che quella comunità è e deve essere fatta anche di corpi oltre che di desideri e che il ripiegamento nel virtuale mostra tutti i limiti noti, che già da tempo sono stati evidenziati.
Questi limiti portano con loro rischi e, in questa situazione, ci accorgiamo che da questi rischi non siamo immuni neanche noi.
Una fragilità in più, che si aggiunge a tutte quelle che sembriamo scoprire ogni giorno (ma che avevamo numerosi elementi per leggere già da tempo).
Il fatto stesso che tanto i media quanto il mondo politico abbiano inquadrato e imposto l’attuale epidemia di Covid19 nei termini di una emergenza ne ha comportato una lettura polarizzata. Da un lato si sono diffusi allarmismo e paura, condizioni riconosciute come necessarie alla pronta disponibilità all’accettazione di misure autoritarie e alla sospensione di alcune delle libertà individuali e collettive, sacrificate sull’altare della “sicurezza”. Una dinamica nota, che porta con sé l’autocensura di comportamenti dipinti come irresponsabili e dannosi e la colpevolizzazione di quanti li agiscono, additati esemplarmente quali responsabili di quella irresponsabilità e, quindi, dell’aggravarsi della situazione. Dall’altro, quanti di noi denunciano da anni l’uso strumentale del frame emergenziale ai fini di perpetuazione degli attuali meccanismi di governance hanno reagito con la riproposizione di strumenti concettuali noti, arrivando a rifiutare in blocco ogni comunicazione circa la diffusione del virus e, di conseguenza, evitando di discernere tra misure utili al contenimento del contagio e mere strategie di controllo.
Me se si nega all’attuale situazione il carattere potenzialmente inedito, se si continua a costringerlo entro categorie interpretative note, le si nega anche la possibilità euristica, il carattere straniante che potrebbe aprire possibilità trasformative e intersezionali, vista la trasversalità delle preoccupazioni cui da luogo, ma anche le molteplici dimensioni di disequilibrio e di potere che consente di portare alla luce e di affrontare.
Ecco che riflettere sulle «virtù del virus», come fa Rocco Ronchi su “doppiozero” significa cercare ogni interstizio in cui incuneare le lotte, cercando di costruire narrazioni antagoniste in grado di contrastare quelle dominanti e di gettare luce sugli egoismi individuali che altrimenti rischierebbero di disinnescarle, approfittando del fatto che le certezze granitiche che fanno da involucro a quegli egoismi in questi giorni vengono messe in discussione. Che stanno crollando, per molti.
Una esigenza di superare il sofismo intellettualistico anche di parte del movimento che qualcuno ha già espresso e che ci invita ad aprirci al dialogo e al confronto, senza sminuire o ridicolizzare l’altro, evitando così di ritrovarci isolati due volte, confinati nelle nostre solite case e nelle nostre solite stanze.
La trappola di estendere categorie concettuali utili a campi e situazioni per le quali risultavano stiracchiate ha tradito molti di noi. Quando poi a questa si è aggiunta la fretta di esprimersi tempestivamente, sulla base di prime impressioni – che magari erano largamente condivise – chi era più attrezzati concettualmente per argomentare lo ha fatto ed è difficile dire ora, a posteriori, se il silenzio altrui era imputabile alla difficoltà a “mettere in parola” il proprio pensiero, all’autocensura o alla prudenza.
Prudenza che, in alcuni casi, sarebbe stata utile: la rapidità con cui la situazione era destinata ad evolversi non avrebbe certo inficiato l’efficacia di quelle categorie concettuali, ma avrebbe rivelato che la loro applicazione doveva misurarsi con elementi non ancora noti che andavano ad aggiungersi alla complessità dell’esistente.
Quando anche ci si sia espressi in modo incauto, questo non sarebbe un problema: sta nelle situazioni in evoluzione il poter tornare sui propri passi, ri-orientarsi, apprezzare i suggerimenti per affinare la precisione.
Penso a Wu Ming e alla prima puntata del suo Diario virale. Anche se non mi convince l’accusa di «negazionismo epidemiologico» che è stata loro rivolta, dispiace che da parte loro, come da parte di altri, non ci sia stata negli interventi successivi la capacità di ammettere le iniziali leggerezze.
Se non si riconosce all’attuale una porzione di inedito, ma lo si riconduce al noto, anche attraverso l’analogia, si sarà tentati di andare avanti per la propria strada, col rischio di dare luogo ad un sofisticato esercizio di stile e di impantanarsi nell’autoreferenzialità.
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scritto da Gianpaolo Ornaghi, pubblicato in Studi sulla questione criminale del 23 marzo 2020
segnalato da Donatella Ianelli