La risposta alla domanda del titolo non è facile sia per il gran numero di lavori pubblicati di recente, sia per la centralità del tema per le norme anticontagio che hanno portato al lungo periodo di lockdown sociale. La prospettiva di ulteriori periodi di confinamento sembra reale sia per ritorni di focolai, sia per la prospettiva di future pandemie. Aspetti questi che mettono in forte crisi il vivere basato su vecchie regole e la difficoltà di pensare alla solitudine come un evento di normalità nel futuro. In questo post ho raccolto in modo antologico le più recenti indicazioni prospettate dalla ricerca psicosociale riguardo alla solitudine.
La solitudine è tra le cause psicosociali più frequenti di perdita della salute, svolgendo la sua azione in maniera differenziata nelle diverse età e circostanze della vita. È importante conoscere le tappe e gli aspetti della solitudine per meglio impostare azioni preventive sul singolo e sulla collettività o di riduzione del danno, dedicando attenzione a come mettere in atto meccanismi protettivi. Sul piano psicologico il punto centrale consiste nel ricostruire la connessione tra corpo e mente, perché l’azione della solitudine si sviluppa sul confine delicato tra le percezioni somatiche indotte dall’essere soli e gli effetti che queste hanno sul cervello, che, a loro volta, portano a reazioni che si riflettono a livello somatico.
La solitudine può essere reale (persone che vivono sole), oppure percepita (persone che pur vivendo in comunità sono sole mancando di relazioni significative). Molto spesso la solitudine è entrambe e il supporto deve essere distinto tra sociale (oggettivo) e psicologico (soggettivo). Il senso di solitudine oggi è tema sociale centrale, in ogni età con picchi preoccupanti nell'adolescenza e nell'età senile.
In Italia, solo di recente è cresciuta la preoccupazione per le troppe persone sole. Sono persone che sperimentano una continua condizione di dolore e sofferenza che rappresenta sia un rischio per la salute sia un problema sociale. E' noto, e espresso da numerose indagini sociologiche svolte in Europa, che la manifestazione e la progressione della solitudine tra gli strati sociali generazionali è fenomeno complesso ed associato a tre ordini di fattori:
- il cambiamento della tipologia di nucleo familiare, con una tendenza a un aumento vertiginoso delle famiglie unipersonali;
- la riduzione significativa delle nascite;
- l’aumento dell’età media della vita che, secondo le proiezioni più aggiornate, determinerà un invecchiamento radicale della popolazione mondiale.
Il rapporto annuale dell’Istat relativo al 2018 rileva che in Italia il 13% della popolazione generale vive da sola. Questa ‘solitudine’ varia molto a seconda dell’età dei soggetti: al di sotto dei 25 anni vive da solo l’1% degli italiani; tra i 25 e i 34 anni vive da solo l’11,9%; dai 35 ai 54 anni la percentuale si mantiene stabile intorno al 12%; tra i 55 e i 74 anni è il 16%, mentre nelle età successive la percentuale risulta più che raddoppiata (38,3%). Lo stesso rapporto evidenzia come tra le persone di 75 anni e più anni in Italia sia drammaticamente alta la percentuale di quelli che non hanno parenti né amici cui riferirsi in caso di bisogno: quasi il 40% di tutti i soggetti in tale fascia d’età, dei quali l’11,7% può rivolgersi solo a un vicino di casa.
La solitudine socio-antropologica
La solitudine accelera il processo di fragilizzazione della persona a qualunque età, ma particolarmente nella vecchiaia, a causa sia del fattore aggiuntivo dell’età e sia alle patologie croniche associate alla perdita parziale o totale dell’autosufficienza. Il numero di persone non autosufficienti, non solo anziane, è in forte crescita in tutta l'Europa: una realtà che va preparata in termini di distribuzione delle risorse, della maggiore spesa sanitaria e del welfare sociale.
Il problema della solitudine socio-antropologica è centrale sul destino delle persone oggi in età produttiva dato che si dovranno accollare gran parte del peso economico della sopravvivenza della comunità anziana, pur nella triste prospettiva che difficilmente con il sistema pensionistico attuale potranno contare sulla solidarietà della popolazione attiva nel momento in cui loro stessi diverranno vecchi. Ecco perché parlare della solitudine umana è parlare del futuro degli anziani di oggi e di domani. Ridurre la sofferenza della solitudine in tutte le fascia di età è importante per riuscire a mantenere una quota di efficienza, di interessi e di salute in individui che, se profondamente depressi, divengono un peso enorme per la popolazione attiva.
Vediamo di mettere insieme questo puzzle cercando di collocare adeguatamente ogni tessera. Innanzi tutto è compito arduo definire la solitudine: ha differenti livelli di profondità e gravità che esigono risposte mirate personali sia sul piano sociologico che sul piano psicologico. Certamente non dobbiamo confonderla con altre espressioni che in essa sono comprese, ma che da sole non la definiscono, quali la malinconia, l’isolamento e, più in generale, la sofferenza che da interiore si fa fisica.
Un esempio per comprendere la complessità del senso di solitudine nei popoli più evoluti è dato dal fenomeno giapponese del kodokushi (morte solitaria). È particolarmente diffuso nella capitale e quasi sconosciuto nei piccoli villaggi rurali. L'apparente paradosso è costituito dal fatto che morire di solitudine, e in solitudine, è molto più facile quando si è circondati da milioni di persone. Questa situazione sociale può essere definita come l’apoteosi di una società senza identità che cerca la morte nell’indifferenza collettiva, ma non dobbiamo stupirci troppo di quel che capita in Giappone: in Italia le morti solitarie nelle RSA sono divenute note, solo per l'evento Covid-19 (prima sapevamo ..., ma facevamo finta di non sapere...). Questo è un altro fenomeno sociale che spinge le persone a non volersi responsabilizzare per le generazioni passate, ma attualmente anche la decrescita demografica potrebbe essere spiegata con un maggiore desiderio di solitudine (ovvero meglio una solitudine futura che un eccesso di impegno oggi ...).
La pandemia che ci ha travolti e coinvolti ci sta obbligando a guardare in faccia, forse finalmente con maggiore consapevolezza, alla nostra solitudine, al nostro arido individualismo, ma al contempo sta favorendo l’emergere di un pensiero realmente collettivo e orientato al bisogno di reciprocità. Un bisogno che è però contrastato dalla crescente differenziazione del concetto di ‘famiglia’: abbandonata l'era di una famiglia in cui più generazioni convivevano assieme o sono in stretta relazione, si è approdati a famiglie unipersonali siano le persone giovani o vecchie. La differenza tra le due situazioni di età sta nel fatto che i giovani in maggioranza la scelgono, mentre tra gli anziani la subiscono. Così da una solitudine di carattere socio-antropologici si passa ad una solitudine egoistica.
La solitudine egoistica
I dati demografici e psicosociali sottolineano il potente individualismo che domina la vita di oggi e che si diffonde attraverso i media come mezzo di autorealizzazione e di autovalutazione personale. Come sosteneva Zigmunt Bauman, è possibile che l’aumento della libertà individuale coincida con l’aumento dell’impotenza collettiva, in quanto i ponti tra vita pubblica e vita privata sono stati abbattuti o non sono mai stati costruiti. Sui media è molto evidente il mescolamento tra vita pubblica e vita privata. Non solo per i personaggi dello spettacolo, ma anche per le singole persone (dai social ai selfies).
Ecco un esempio tratto dalla cronaca. Siamo arrivati al punto che mariti hanno nel proprio smartphone foto della moglie che dorme più o meno vestita e si gloriano nel mostrarle agli amici. Un fatto di costume ai limiti della decenza, sopra i limiti della oggettivizzazione della moglie che non sa di essere stata fotografata, mentre si sta facendo un pisolino. C'è in questo caso, a parte le considerazioni patologiche, un tentativo di relazione con gli amici che supera l'intimità coniugale, frutto di fatto di una relazione basata sulla propria individualità che annulla la relazione etica verso il coniuge: le immagini della moglie vengono “vendute” agli amici per far crescere la propria appartenenza al gruppo sodale come fosse un trofeo, ma che di fatto è atto di violenza verso la moglie che da “soggetto” privato diviene “oggetto” pubblico consumabile. Non è un fatto solo stupido, solo maschilista, solo privo di etica coniugale, ma un fatto che sottolinea la solitudine reale del partner che ha cancellato ogni appartenenza, ogni donazione all'altro. Vivere la vita di relazione basandola sulla propria solitudine egocentrica fa escludere ogni rapporto profondo e rende le persone sempre più sole e sempre più alla ricerca di una affiliazione che non si trova più nel partner, ma negli amici coi quali si vive di fatto la doppia relazione tra privato e pubblico senza confini.
A lungo andare e con l'età, però, si scopre che si ha un forte bisogno di un minimo comune denominatore sociale: è così che nasce il bisogno di ri-affiliazione, il bisogno di comunità, il bisogno di relazioni significative e reali, il bisogno di luoghi fatti di persone e di ponti. È il momento in cui o si sopporta il partner creandosi un mondi interiore di sopravvivenza egoistica o lo si lascia per uno più significativo alla ricerca di una ri-affiliazione. Ovvero, la necessità di operare privatamente e pubblicamente per creare una dimensione interiore che faciliti il ritorno alla gratitudine, all’ascolto, alla felicità di donare all’altro incondizionatamente, alla curiosità quale spinta all’incontro tra me e l’altro, alla gentilezza, alla solidarietà.
Oggi, in una fase sociale in cui la norma è pensare a se stessi, il coronavirus ha il potere di ricordarci che l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il bisogno di comunità, il senso di appartenenza che ci costringe a sentirci parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura. La responsabilità civile è responsabilità condivisa, la consapevolezza che le nostre azioni hanno conseguenze più ampie e da queste dipendono le mie sorti e quelle altrui.
La prima risposta concreta, in questa direzione, è il richiamo alla lotta contro la solitudine subita attraverso un cambiamento culturale:
- operare un cambiamento culturale per incidere sull’individualismo sfrenato, che domina le modalità di vita odierne e che, attraverso i media, si è diffuso quale mezzo di autorealizzazione e di autovalutazione;
- fornire stimolazioni all’individuo che invecchia, perché nel tempo non trascuri di coltivare le diverse occasioni di reti relazionali che la vita offre e perché manifesti la propria soggettività e le conseguenti richieste di supporto, modificando atteggiamenti ancora prevalenti che tendono ad impedire in età avanzata la libera espressività del sentire individuale;
- indurre le comunità a modificarsi dall’interno costruendo ponti.
Un numero significativo di prove scientifiche hanno confermato che avere relazioni di qualità e il sentirsi socialmente connessi alle altre persone sono associate ad un ridotto rischio di morbilità e mortalità. La risposta concreta per giovani ed anziani diviene dunque legata al favorire la partecipazione sociale attiva nella famiglia e nella società. L'assenza della dimensione affettiva di relazione nei giovani tra genitori e figli non può che essere le fondamenta della propria dimensione anziana, quando la solitudine relazionale e l'emarginazione sociale sarà corrente.
La solitudine dell'anziano
La solitudine sociale è particolarmente sentita dagli anziani dato che sono vissuti in una famiglia tradizionale ed ora si trovano a vivere in una famiglia costituita da marito e moglie (con i figli affettivamente lontani), ma spesso in condizione di vedovanza, quindi in una forte condizione di solitudine, anche a causa di una forte accelerazione della società verso sistemi socio-tecnologici complessi.
Eppure, gli anziani possono contribuire alla società: il diffuso pregiudizio che gli anziani non forniscono nulla alla società si basa sulla nozione che solo le occupazioni retribuite abbiano valore; tuttavia, sostanziali contributi vengono forniti da persone anziane in lavori non pagati in molti settori, come l’agricoltura ed il volontariato. Il punto cruciale è dare un significato all’invecchiamento collettivo, che deve continuare a rappresentare un momento vitale e non un tempo di rinuncia e di chiusura dei singoli cittadini.
Le risposte alla solitudine possono prevedere molti interventi specifici che si aggiungono alle azioni culturali e trasversali di sensibilizzazione orientata al cambiamento culturale. La letteratura scientifica ci propone ampie revisioni relative alla tipologia e all’efficacia degli interventi proposti dalle realtà locali per contrastare la solitudine:
- interventi atti a migliorare le capacità sociali
- interventi atti a migliorare il sostegno sociale, legati anche alla presenza e alla collaborazione di animali e/o robot
- interventi atti ad aumentare le opportunità di contatto sociale, anche attraverso l’utilizzo del computer ed in particolare dei social network
- interventi atti ad affrontare la cognizione sociale disadattativa
La solitudine popolata
I contesti assistenziali, in particolare per l’anziano, rischiano spesso di favorire una solitudine popolata. Il ricovero in ospedale o l’istituzionalizzazione interrompono e modificano i rapporti con gli altri. Accanto alle persone assistite troviamo poi, spesso, operatori che incontrano barriere linguistiche, la solitudine negli interventi domiciliari, difficoltà comunicative all’interno dell’équipe multidisciplinare. Rileviamo un aumentato rischio di burn-out che aliena sempre più e distoglie ancora una volta dall’obiettivo della cura. La solitudine dell’operatore è infatti uno degli elementi che impatta in modo rilevante sulla qualità dell’assistenza e questa solitudine è immediatamente percepita dall'anziano che cerca disperatamente di ricreare un legame di ri-affiliazione, ma che sente la ritrosia di un operatore a sua volta frustrato da un rapporto assai debole e non gratificante con il paziente.
Concludendo a ben guardare dobbiamo fronteggiare non solo la nostra personale solitudine, ma anche quella degli altri che ci circondano sul piano professionale ed umano. Non una solitudine, dunque, ma molte solitudini. Per questo il tema della solitudine ha ancora necessità di approfondimento orientato soprattutto ad un più ampio cambiamento culturale, poiché trovare nuove strategie per evitare sensazioni croniche di solitudine nella popolazione anziana potrebbe diventare uno degli interventi di prevenzione più interessanti in ambito sociale e più vantaggiosi in termini di spesa pubblica. Il momento storico della pandemia ha messo alla prova il bisogno di vivere insieme entro un pensiero collettivo comune per prevenire il contagio, prima ancora di debellare il virus con un vaccino. E … non è retorica, ma un bisogno stringente della nostra società di persone: sempre più dobbiamo passare dal dire personale al fare sociale proprio della cittadinanza attiva.
sintesi antologica commentata di Alessandro Bruni tratta con modifiche dagli scritti dei seguenti autori:
- Zygmunt Bauman (2000) La solitudine del cittadino globale. Feltrinelli.
- John T. Cacioppo e William Patrick (2013) Solitudine. Saggiatore.
- Marco Trabucchi (2016) L'anziano attivo. Feltrinelli.
- Vittorino Andreoli (2018) Beata solitudine. Pickwick.
- Marco Trabucchi (2019) Maledetta solitudine. Feltrinelli.
- Marco Trabucchi (2020) Gli anziani e Covid-19. Alpes Editore.
- Marco Trabucchi et al. (2018-2020) Articoli sulla condizione degli anziani pubblicati in I luoghi della cura.