di Giuseppe Stoppiglia.
Ieri e oggi. Eppur vive
La malattia
Se la malattia, l’essere ammalati divide, separa, rinchiude materialmente e ripiega in una misteriosa sensazione di annullamento, è anche esperienza di dilatazione interiore. Lei ha cercato di tramutare la sua abissale sofferenza in dolcezza e intimità, a volte in forza ed urlo, scoprendo che le orecchie “dei più” erano diventate sensibili solo al tintinnio del denaro, garanzia di quella sicurezza cui lei aveva rinunciato.
Rinuncia che non voleva essere silenzio e neppure abbraccio di consolazione, ma doveva partorire bellezza. Raccontava agli “adattati” quel residuo di speranza che è il “non-adattamento”: avvelenando la loro quiete e dissolvendo la loro stabilità.
La morte, comunque, disorienta, ti fa il vuoto dentro ed intorno. Lacera e distrugge. Ti umilia, ti toglie l’esercizio della parola, perché vittoria sulla vita senza scampo. Il dolore della morte è di per sé “smisurato”. Ci sono persone che si credono divinità, mentre sono solo poveri idioti.
Altre, invece, si avvicinano come un’ombra che non ti vuole disturbare, e sono piene di saggezza. Saggio è chi sa vedere la realtà non solo con gli occhi della ragione ma anche con quelli della sensibilità. Saggio è chi sa sperare senza fretta. Sa di non arrivare prima mettendosi a correre, e che il meglio della vita continua a restare nascosto nel duro mistero del cuore delle pietre.
La stanchezza interiore
Ci sono momenti in cui il sentimento dell’impossibilità di procedere oltre diventa generale; consumate le riserve del fervore nell’impegno, c’è il bisogno di sedersi, rinunciando a camminare. Le circostanze attuali mi sospingono a riflettere sulle ragioni di questa stanchezza, che non sono immediatamente personali, sono esterne, condivise, diventano tonalità collettive, clima storico.
Fino a che c’è un rapporto di corrispondenza tra le speranze che ci animano e l’orizzonte della nostra azione, la ragione del camminare sopravvive. La meta è lontana, ma è visibile, le forze necessarie per raggiungerla sono disponibili; è necessario stringere i vincoli della concordia, della collaborazione, per superare le difficoltà in cui siamo.
Ma ci sono momenti in cui, invece, non trovando più nessuna corrispondenza, le risorse della speranza s’illanguidiscono e noi cadiamo nella stanchezza spirituale. Si rischia davvero di cadere in quella disperazione anestetizzata che è l’ignavia. Non tutti i disperati si strappano i capelli; si siedono, tirano a campare, accettano la misura del giorno, non sperano altro, sono rinunciatari dal punto di vista degli ideali morali. Il numero maggiore di disperati è di questo tipo.
La disperazione che grida è già un sintomo di nobiltà, ma c’è la disperazione che non grida più, che non trova nemmeno motivo di gridare. E questa è immensa.
scritto da Giuseppe Stoppiglia, pubblicato in Madrugada n. 39 del settembre 2000