di Valentina Pisanty.
La lettura di "I Guardiani della memoria" di Valentina Pisanty (Bompiani. 2020) è scomoda, quasi fastidiosa, perché va a mettere in discussione quelle pratiche emotive codificate che attiviamo ogni qual volta dobbiamo indignarci verso il male. Del resto sono le stesse pratiche verso cui, probabilmente, molti degli antisemiti nati in questo contesto di politiche della memoria hanno perso da tempo ogni sensibilità.
Servirebbe una maggiore educazione all’analisi storiografica, che vada oltre slogan statici e che fornisca le competenze per saper comparare le situazioni di ieri con quelle di oggi. Aggiungiamo noi che parallelamente, e sempre sotto l'egida dell'analisi storiografica, andrebbe fatto un ampio lavoro di diffusione delle gesta esemplari di coraggio e di dissenso (quelle dei Giusti, per intenderci). Forse questo potrebbe contribuire a rallentare l’assuefazione dell’opinione pubblica verso i gesti ipocriti di quei leader “in odore di xenofobia” che “si sottopongono a una sorta di lavacro lustrale” recandosi allo Yad Vashem o nelle altre località del trauma.
Pur riconoscendo l’unicità della Shoah e la tendenza contemporanea a utilizzare impropriamente il termine genocidio, è innegabile che la promozione di questo tipo di memoria “by any means necessary” porta a una contraddizione latente, sottile quanto pericolosa: fare leva su un principio di autorità incontestabile e sminuire o ignorare gli altri genocidi, non esporsi per le negazioni dei diritti umani di oggi fa sì che lo stesso principio di autorità venga brandito dagli stessi che pronunciano ai propri elettori slogan come America first, Italia agli italiani e così via. La memoria olocaustica, quindi, sta mutando “in paradigma vittimario con cui chiunque può farsi scudo mentre avanza a spallate a spese delle vittime vere”.
Per quanto riguarda i negazionisti, è importante capire quando e come sono tornati a farsi largo nei media (prima che, attraverso i social network, le loro idee avessero addirittura libero accesso). Probabilmente questo passaggio è avvenuto in un momento in cui i mostri sacri della memoria erano troppo impegnati a contendersi il primato della rappresentanza e le storie dei campi di concentramento iniziavano a essere utilizzate cospicuamente dallo show business. Nel frattempo, caduta l’influenza dell’ex Unione Sovietica, dai paesi dell’est Europa sono arrivati nuovi aggiustamenti a questi paradigmi e una moltiplicazioni di memorie locali.
Corto circuiti in cui, ad esempio, il collaborazionista ucraino Stepan Bandera è considerato eroe nazionale e viene celebrato con una giornata commemorativa e la memoria di altre tragedie (come l’Holodomor) viene utilizzata non in maniera costruttiva ma come difesa strumentale per minimizzare la propria responsabilità nell’Olocausto. “Siamo passati a un altro tipo di appropriazione”, scrive Pisanty. “Lo sfruttamento dell’Olocausto come forma narrativa vuota nella quale chiunque – persino gli antisemiti – si può insediare per rappresentarsi nel ruolo di vittima”.
Sicuramente una memoria “ortodossa” così stanca, retorica, alimentata da nuovi film sul nazismo tutti uguali e di dubbia qualità cinematografica, perde di vista quelli che dovrebbero essere i principali destinatari: i giovani. Sin da piccoli, gli studenti vengono introdotti a un “mai più” ormai svuotato di ogni significato. Ecco che allora diventano affascinanti quelle aree di mezzo tra la narrazione autorizzata dai Guardiani della memoria e il negazionismo “puro”: sono le regioni del politicamente scorretto, del black humor, della difesa della libertà d’espressione sempre e comunque.
È qui che si forma un nuovo razzismo, che attecchisce non solo nei bacini tradizionali della destra estrema, ma anche presso segmenti sparsi della popolazione spoliticizzata. A maggior ragione, la narrazione dell’Olocausto appare statica verso i nuovi consumatori di prodotti culturali, che su Netflix e sulle altre piattaforme guardano saghe in cui non ci sono vittime e carnefici ma “rough heroes” a tutto tondo e moralmente ambigui, non polarizzati, appartenenti a mondi spietati e improntati al darwinismo sociale in cui vale la regola del “win or die”.
Cosa succede se l’Olocausto viene inquadrato in questa trama narrativa? Che i sopravvissuti diventano eroi e le loro storie vengono propagate nei manualetti per il self help. Una vera e propria storpiatura del messaggio dei testimoni. Quando a Liliana Segre chiedono come è riuscita a sopravvivere, la Senatrice a vita risponde “per caso”. Non c’è nulla di eroico nella sopravvivenza e questa esaltazione dell’eroe in quanto sopravvissuto è incompatibile con i valori dell’antirazzismo e della giustizia sociale, che i nuovi xenofobi definiscono “buonismo”.
Insomma, la memoria non gode di buona salute. I segnali elencati da Pisanty sono tanti e preoccupanti e vanno colti il prima possibile. Come ha scritto Anna Foa nel dibattito sulla memoria ospitato da Gariwo, “dobbiamo evitare di metterci sulla difensiva. Non dobbiamo costruire muri, e in questo frangente è semmai più necessario far nascere ponti. Dobbiamo rinnovarci continuamente, evitare di difendere il passato, ma elaborarlo per trarne insegnamenti e guide”.
In quest’ottica Pisanty mette in discussione un altro dogma: quello della punizione come arma della memoria, che troppo spesso concede ai negazionisti di appropriarsi del ruolo immeritato di eretici oppressi. In conclusione, “siamo sicuri che la lotta al razzismo sia l’obiettivo primario” di chi promuove le politiche della memoria e in particolare le sue leggi punitive? Un nuovo modo di fare memoria che parli alle coscienze dei giovani e contribuisca a contrastare i problemi dell’oggi non può non partire da questi dubbi.
scritto da Joshua Evangelista, pubblicato in Gariwo, la foresta dei giusti di ottobre 2020
sintesi di Alessandro Bruni
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