di Andrea Gandini.
Sappiamo tutti che il livello dei positivi all’infezione individuati è in rapporto al numero dei tamponi. Se a marzo-aprile si facevano 25mila tamponi al giorno è ovvio che il numero dei positivi era molto minore di oggi che finalmente si riesce a fare 200mila tamponi. Inoltre sappiamo che oggi i positivi sono (in %) molto meno di quelli che vengono testati, rispetto a marzo-aprile e soprattutto che chi si ammala tra i positivi (una quota esigua attorno al 5%) ha una letalità molto minore (0,5% rispetto al 7% di marzo-aprile). Ciò è dovuto alle migliori cure, alla loro precocità e al fatto che ora sono soprattutto giovani o adulti ad essere infettati (più che gli anziani), i quali hanno pochissime probabilità di morire per infezione da Covid.
Qual è allora un indice oggettivo dell’andamento dell’epidemia?
Il numero dei morti che in ogni Paese è sempre stato calcolato sin dall’inizio di marzo con la stessa metodologia. Sappiamo anche che i paesi hanno deciso metodi di classificazioni diversi, per esempio Italia, Spagna, Francia e Regno Unito classificano come morti per Covid tutti coloro che hanno avuto anche il Covid (ma molti dei quali sarebbero morti anche senza Covid dopo qualche giorno o mese per le gravi polipatologie che già avevano), mentre la Germania classifica solo coloro che non avevano altre gravi e plurime patologie Covid. Ma al di là dei diversi metodi di classificazione è interessante notare che l’andamento da marzo ad oggi dei morti ha un profilo simile per tutti i paesi europei.
Mentre a fine marzo c’è stato un picco di morti (in Italia 969) analogo in tutti i paesi, poi c’è stata per tutti una discesa costante e ora c’è una ripresa che si colloca però (in numero di morti) attorno al 20% dei picchi massimi di fine marzo. E’ così ovunque: in Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e anche in Svezia che non ha adottato alcun lockdown. Anzi la Svezia si caratterizza in questo momento per la minor crescita della mortalità per cui mentre al 30 agosto i morti per milione di abitanti erano in Svezia 576, quasi come quelli dell’Italia (588), nelle ultime settimane la forbice si è allargata a favore della Svezia: 588 rispetto a 644 dell’Italia.
Parrebbe quindi che, al di là delle misure (diverse) che hanno preso i vari Governi, il virus stia producendo in termini di decessi gli stessi identici risultati (anzi in Svezia le cose vanno meglio).
Il virus è come un’onda che in inverno si innalza e che deve vedere una “diga” nella sanità capace di reggere a questa marea. Se si riesce a fare questo con la “diga sanitaria” il paese non viene travolto da una emergenza sanitaria e può continuare a lavorare e a curare anche gli altri malati.
Non dimentichiamo infatti che l’Istat stimava già a maggio in 12mila i morti aggiuntivi per mancanza di operazioni e prevenzione oncologica nel 2020 per l’emergenza sanitaria avvenuta in primavera, ma se tale emergenza dovesse continuare si producono effetti devastanti sulla salute pubblica, a breve e a lungo periodo, in quanto i malati non Covid diventano di serie B senza poter effettuare screening o terapie e questo porta in futuro ad un aumento della mortalità. E’ quindi evidente che il punto strategico è non saturare gli ospedali e avere una “diga” superiore all’”onda”. Se questa non c’è l’unica soluzione è quella medioevale del confinamento e del chiudere tutti in casa. La difesa “diga” dal virus si basa sulle 3 T (testare, tracciare, terapie).
Sul testare i passi avanti dell’Italia sono evidenti (anche se insufficienti). Come dicevamo all'inizio, oggi si fanno circa 200mila tamponi quando in marzo se ne facevano 25-35mila. Sul tracciare invece abbiamo perso tempo a suggerire di scaricare l’App Immuni (che funziona male) quando negli altri Paesi (Germania, Sud Corea,…) si è scelto sin da aprile la via più efficace dei tracciatori umani.
Sulle terapie, dopo aver scoperto alcune buone cure con farmaci tradizionali proprio per merito di molti clinici italiani coraggiosi e valorosi sul campo (eparina, cortisone, idrossiclorochina, trasfusioni con plasma, oltre al remdesevir, unico farmaco autorizzato), non si è stati capaci di organizzarle in modo che queste terapie si facessero subito ai primi sintomi e a casa. La carenza dei tracciatori (fase 2) ha indebolito la fase 3 delle cure. Eppure il Governo aveva indicato di potenziare le Usca (Unità speciali di continuità assistenziali) sin dal 9 marzo. E qui le responsabilità sono, prima ancora del Governo e delle Regioni, di come funziona la P.A., cioè la mancanza di figure come il responsabile di procedimento che presidia i processi e segnala per tempo se le cose non si fanno (o sono in ritardo) o costano troppo. O, se si vuole, di una PA più orientata alle direttive, alle norme e meno al farle davvero applicare e a implementare quello che si legifera.
Un aspetto importante sono poi le RSA dove nel 2020 il 40% delle morti è dovuto a Covid.
La strategia di evitare assembramenti doveva estendersi innanzitutto agli ospedali, ai pronto soccorso, agli ambulatori medici. Come ho già scritto l’esperienza di molti che sono risultati positivi (o di verificare se lo sono) è quella di non trovare risposte rapide né dal medico di famiglia (che segue 1500 malati e non ha molto tempo per rispondere al telefono), né dai vari numeri verdi Covid. Così molti si recano al pronto soccorso intasando ulteriormente gli ospedali, oppure rimangono a casa senza cure e, aggravandosi, finiscono in ospedale saturando le terapie intensive.
E questo fenomeno si accentua se la comunicazione pubblica è allarmista.
Il potenziamento delle Usca avrebbe inoltre dato l’opportunità di lavorare a moltissimi giovani (medici, infermieri ma anche ad altri neo laureati con altre professionalità nei call centre di servizio e di ascolto). Non dimentichiamo che c’è un’ampia fascia di “fragili” che sono soli in casa e che hanno un enorme bisogno di essere ascoltati e presi in carico per essere accompagnati nel giusto percorso. Anche un ampliamento del servizio civile volontario è una misura di emergenza che si può prendere da un giorno all’altro per favorire questo importante lavoro, favorendo l’occupazione dei giovani, così come l’antica pratica del medico di famiglia (che andava a casa dei malati) e che dovrebbe essere ripresa.
Ora viene fuori che il problema non sono i posti di terapia intensiva (saliti a oltre 7mila) e neppure i soldi (che ci sarebbero) ma il personale che mancherebbe. Per rafforzare i servizi sanitari si potrebbero allora utilizzare gli studenti all’ultimo anno dei corsi di laurea in Scienze Infermieristiche e di Medicina con un tirocinio di 3-6 mesi retribuito che dia luogo a crediti formativi (e che potrebbe anche essere retribuito). In tal modo gli attuali operatori sanitari, con l’inserimento dei novizi nelle squadre di lavoro che farebbero le mansioni più semplici, sarebbero spostati su mansioni più complesse (anche con riconoscimento economico) e di colpo potremmo potenziare i servizi essenziali alla lotta contro il Covid (e non solo). Non sarebbe una misura tampone ma una innovazione sia organizzativa che didattica che aumenterebbe l’apprendimento, come abbiamo già sperimentato all’Università di Ferrara per altri percorsi (pil).
Il dibattito dovrebbe essere anche come far fronte concretamente e organizzativamente a questa minaccia (non usando solo il confinamento medievale) ma unendo “riforme e rilancio”, a partire dall’occupazione dei giovani e delle donne. Non si diceva così, una volta, quando non si volevano le “politiche dei due tempi”?
scritto da Andrea Gandini