di Giuseppe Stoppiglia. Focus senilità Focus fine vita
Ieri e oggi. Eppur vive.
La morte, se guardata fino in fondo, ci dice una cosa sola: fragilità. Gli uomini in genere non amano la fragilità. Non riescono a sopportare il consumarsi delle cose, il venir meno della vita. Non riescono a sopportare il silenzio del vuoto, la carica urticante dell’assenza.
La ricerca affannata che certi uomini fanno del potere è un esorcismo contro la morte e la fragilità della vita. Si può rispettare questa fragilità, imparare ad amarla, metterla al centro del proprio modo di pensare e di agire, al centro del proprio modo di vivere e di valorizzare le relazioni. Si può, infine, trarre forza e determinazione da questo riconoscimento. In questo caso il potere perde molto del suo fascino. Perché far leva sul potere non è il modo migliore per rispettare e creare bellezza nel fragile tessuto della vita e delle relazioni.
Un esempio illuminante di autenticità umana derivata dalla riconciliazione con la morte, quale momento intrinseco del vivere, è Francesco d’Assisi, l’uomo senza paure: né di se stesso, né degli altri, né di Dio, né della morte, considerata sorella. Niente da difendere, nessun aspetto da nascondere; nessun essere umano, nessun essere vivente identificato come minaccia, come nemico da attaccare: una riconciliazione completa.
In questa nostra epoca è però molto difficile, soprattutto per tre motivazioni ingombranti e pericolose.
- La prima è l’assolutizzazione della soggettività come individualismo che non accetta il confronto con gli altri, con il bene comune, temendoli come limitazione per sé.
- La seconda è la realizzazione personale senza alcuna verifica etica.
- La terza è il protagonismo vincente. Tutte e tre rendono difficile l’accettazione del limite, della malattia, della sofferenza, della morte.
L’uomo onnipotente ed onnisciente non iscrive nelle possibilità la morte: presume illusoriamente l’immortalità.
Misericordia e speranza
Esiste e si crea in alcuni una situazione contraria: il trapasso d’epoca, le profonde trasformazioni, le difficoltà a trovare riferimenti significativi, le delusioni personali, relazionali e storiche accrescono il senso del limite, della fragilità, del vuoto che sfocia spesso nel non senso, in una sorta di nichilismo nel quale la morte è piuttosto indifferente o invocata e cercata come soluzione.
Purtroppo l’attuale cultura non è in grado di misurarsi umanisticamente con tale dimensione. Ignorando il dovere della responsabilità, ignora pure la virtù civile e cardinale della misericordia. Misericordia per la vita e per la morte, la nostra e degli altri, degli umani e del creato intero.
Per gli uomini e le donne che accettano la responsabilità, c’è bisogno della speranza… e la speranza è già redenzione. Credo che i cristiani di Timor Est, i musulmani del Senegal, i marxisti della Colombia e i buddisti del Tibet siano ricchi di speranza e in via di redenzione già prima che la morte offra loro un’opportunità di verifica ulteriore.
Tastare l’orizzonte, nel mattino
Esco di primo mattino e l’aria fresca mi avvolge. Riscopro il volto delle cose, dei fiori, degli alberi, sotto il gran cielo assorto. La poesia e la spiritualità del quotidiano. «Aprirsi – diceva Capitini – è come pregare». Svuoto la mente da ogni pensiero negativo, poi da ogni pensiero tout court. Mi concentro sui dati immediati, elementari, dei cinque sensi.
Provate a farlo anche voi in montagna o in riva al mare, nei giardini pubblici o sulla terrazza di casa. Scioglietevi nel soffio che giunge alle vostre narici - odore di pino, di salmastro, di caffè o di bucato - nel vento che accarezza la vostra pelle, nel cinguettio degli uccelli e nello stormire delle foglie, nella vela lontana o nel profilo dei monti o nel bimbo che gioca… e diventerete voi stessi, vi sentirete uno col tutto e nell’unità del tutto, sentirete la trascendente presenza dell’invisibile divinità. Soprattutto non amareggiatevi per i milioni che non avete… mettiamoci assieme alla finestra a guardare le stelle: sono miliardi… e sono tutte nostre.
Per stare sulla strada sento che ho le gambe abbastanza buone. Non ci vedo moltissimo e l’udito è diminuito un po’, ma non manco un giorno dopo l’altro di tastare l’orizzonte per sentire se per caso si è allargato abbastanza per farmi passare. Per valicare a modo mio la ristrettezza.
Che siamo nello stretto, lo sappiamo, ma è qui che rimango. Il mio viaggio ancora non l’ho finito e sento che la vastità di questa nostra epoca io non l’ho toccata.
Amici, sarò sul ciglio, vi sentirò passare e mi vedrete.
scritto da Giuseppe Stoppiglia, pubblicato in Madrugada n.38 del maggio 2000
segnalato da Alessandro Bruni