di Alessandro Bruni.
Trovo nel web un post del 2015 con questo titolo scritto da Valentina D'Ascanio in Officina filosofica. A dire il vero nel web cercavo un'immagine che concettualmente rappresentasse la tolleranza nella sua modernità dato che in un ennesimo riordino della mia biblioteca era caduto un ritaglio di giornale con un articolo non datato, ma presumibile della fine degli anni '90, di Giancarlo Zizola dal titolo “La tolleranza maschera buona della violenza”. Una catena di casualità che mi ha indotto a scrivere questo post frutto dunque del caso.
Entrambi gli articoli, in misura diversa, mi hanno colpito per lo spontaneo confronto con l'intolleranza sociale che stiamo vivendo. Il dilagare per partito preso di essere contro ogni cosa con ragioni, evidenti o deboli, sempre esposte con modi verbali o fisici eccessivi. Viviamo certamente un tempo di intolleranza che “modernamente” viene manifestata in termini di diritti propri e di negazione di quelli altrui. Tutto questo mi genera incomprensione e stanchezza e di questo mio sbando rendo partecipe chi legge.
Ieri e oggi
L'intolleranza avvelena i pozzi e inaridisce le fonti perché impedisce di riconoscere la fratellanza ed è madre della violenza. La tolleranza è invece interpretata come comportamento di deboli, di buonisti senza determinazione che sono incapaci di leggere il mondo contemporaneo. Eppure l'essere tolleranti con discernimento porta a capire dove sia il bene e in che consista. Eppure in questo nostro mondo, con tutta l'esperienza del passato, ancora l'intolleranza individuale e sociale trionfa. Non serve nemmeno appellarsi alla famiglia dove l'affetto si guasta in possesso, né alla religione, in cui il credo si perverte in fondamentalismo.
Dov'è la verità?
Dobbiamo rassegnarci al pessimismo? Flannery O'Connor reputa che l'uomo vuole male all'uomo (Il cielo è dei violenti, minimum fax. 1960, ed. 2020) e Massimo Recalcati dice che il male è tra noi (si legga il post).
Non volendo abbandonare la speranza di educare alla tolleranza è necessario cambiare a cominciare dai bambini che sono di fronte a noi, prima ancora di voler cambiare il mondo. Torna come in tanti altri campi una visione della famiglia e della scuola come strumenti di emancipazione, strutture sociali sempre bistrattate ma sempre ritenute indispensabili e significative dell'identità umana.
di Valentina D'Ascanio, maggio 12, 2015
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Il termine tolleranza deriva dal latino tolerantia che, a sua volta, prende origine dal verbo tolerare. Il significato del verbo è interessante dal momento che significa tollerare, sopportare.
Ma sopportare cosa? La diversità.
Si, perché tollerare vuol dire mettersi in quella condizione mentale ed emotiva, avere quella capacità di accettare e rispettare le idee e gli atteggiamenti altrui.
Diversi filosofi si sono occupati della tolleranza e di ciò che essa comporta, da Spinoza a Locke, passando per l’illuminismo di Voltaire fino ad arrivare ad Hannah Arendt.
Quest’ultima ha connotato la tolleranza, forse nel senso più politico, intendendo con questo termine la capacità di pensare, anche per un attimo, che l’interlocutore possa aver ragione.
Partendo da tale prospettiva vale sempre la pena mettersi nella posizione di ascolto dell’altro. Sono, infatti, le divergenze politiche, oltre a quelle religiose, ad aver portato alle peggiori guerre e distruzioni, come la stessa Arendt ne è stata vittima e testimone diretta.
La tolleranza è ciò che permette l’incontro con il diverso senza violenza, ed è evidente come, spesso, questo non sia avvenuto. Ancora oggi, seppur in maniera meno lampante, tollerare, sia nel senso di portare che di sopportare la diversità, risulta quanto mai difficile e complicato, sia per quanto riguarda il dialogo tra le religioni, specialmente monoteiste, che per quanto concerne l’arena politica.
Tollerare un’idea, un concetto, una posizione su una determinata questione, sembra non fare parte del panorama politico italiano. Continue violente contrapposizioni, dentro e fuori le aule del Parlamento, dimostrano come l’incontro con l’altro sia sempre segnato da violenza linguistica e talvolta fisica.
di Giancarlo Zizola
E' divenuto assai drammatico se non temerario per ogni cristiano rammentare di questi tempi, anzitutto a se stesso, che la sua salvezza dipende non dalla quantità delle sue pratiche religiose, bensì dalla pratica del perdono “fino a settanta volte sette” e dall'effettivo “porgere l'altra guancia” all'aggressore.
Il problema della traduzione politica di questi precetti, che nei vangeli assumono una cadenza ultimativa, si è posto fin dai primi secoli ai discepoli di Gesù, prima che la Beatitudine dei miti “che erediteranno la terra” fosse dichiarata un'utopia da affidare semmai a qualche santo monaco, privo di senso della realtà. Finché Sant'Agostino d'Ippona chiuse la partita teorizzando la guerra “giusta” e così rovesciando come un guanto lo specifico non violento del cristianesimo.
Da allora tutto poteva succedere e tutto di fatto è accaduto: se la guerra poteva essere giustificata, anche in ragione della dottrina che giustificava la proprietà privata come qualcosa di sacro, la Chiesa non poteva incitare alla guerra per scopi ritenuti giustificabili nell'ordine della teologia. Di più, la Chiesa poteva muovere essa stessa guerra: la storia delle crociate prima e delle guerre religiose in Europa poi, ha comportato una tale eresia da rendere giustificato il monito risuonato con Tolstoi secondo il quale non c'è slogan più grondante sangue di quello “Ad maiorem Dei gloriam” che decora il frontone di molte chiese.
Per uscire in qualche modo dal corto circuito tra utopismo non violento e fondamentalismo criminoso, l'Europa cinquecentesca introdusse il tema della tolleranza religiosa fondata sulla morale cristiana della mitezza. Tuttavia l'impalcatura teorica restava fissa sulla tesi del cristianesimo come unica vera religione, alla quale tutti gli abitanti del mondo si sarebbero dovuti convertire. La tolleranza era vista dunque come fase inevitabile ma provvisoria di una strategia di assimilazione. Persino Erasmo da Rotterdam, certo il pacifista cristiano più attivo del Cinquecento, era così ossessionato dalla figura dell'arabo come nemico fanatico e feroce della cristianità e dell'Occidente, da immaginare con disperazione l'ipotesi che i cristiani finissero sotto il giogo dei musulmani.
Non intendiamo qui entrare nella discussione se siano possibili al Sud del mondo in età nucleare le guerre “giuste” che il Nord mosse e muove nel Mondo, anche dopo Hiroshima, e se per guerra si deve intendere anche quella condotta sui mercati con milioni di vittime ogni giorno. Intendiamo solo suggerire che, se si vuole veramente confinare la guerra, tra i ferri vecchi della storia, nemmeno la formula della tolleranza è più riciclabile, anzi essa rischia di essere solo la maschera buona della stessa violenza che arma il mondo.
Tocchiamo qui un punto critico della storia dell'Occidente almeno da quando il suo profilo politico ed economico si eresse sul piedistallo delle conquiste coloniali. E questo punto è forse anche più critico per la storia della Chiesa da quando essa ha affermato la sua pretesa di detenere l'esclusiva della salvezza universale.
Di fatto, nessuno potrebbe affermare di possedere il vero Dio. Dio non è di nessuno in particolare, perché è di tutti. Non si può possedere Dio, al massimo si può esserne posseduti. Gandhi ha scritto pagine straordinarie sulla verità religiosa come albero che esiste sì come albero, ma è fatto di mille radici, mille rami e mille foglie. Lo slogan “Dio è con noi”, che risuona nei campi religiosi più opposti – ieri quello dei crociati, oggi quello dei fondamentalisti nazionalistici arabi – è il contrario della vera tolleranza.
Ma in cosa può consistere allora la vera tolleranza? E fino a che punto essa potrebbe sopportare l'offesa senza reagire con una forza proporzionale per farla cessare? Possiamo ricordare brevemente alcune risposte maturate dalla coscienza cristiana dopo l'esame di coscienza seguito alla colpe cristiane delle due guerre mondiali, di Auschwitz e di Hiroshima. Anzitutto, che la vera mitezza non ha niente a che fare con una resa rassegnata e inattiva all'ingiustizia e alla violenza, ma sa intraprendere ogni nuova via per disarmare il violento fino a liberarlo nel suo stesso cuore dalla sua stessa violenza, mettendo in moto così un processo di pace alternativo alla logica belligerante che è la sua.
In secondo luogo, la vera tolleranza consiste nel saper riconoscere la ragioni invisibili dell'altro dietro i suoi torti visibili, e reciprocamente nel saper riconoscere in se stessi i torti invisibili dietro le ragioni visibili. Non si potrebbe essere veramente tolleranti se non si è in continua ricerca della verità, in continuo dubbio e dunque disposti a mettere in questione i propri stereotipi culturali, le proprie certezze e le proprie pretese. Spesso noi siamo portati a tollerare l'altro a patto di ricondurlo previamente dentro le nostre categorie culturali, politiche e religiose: la religione è il terreno su cui è più facile prevaricare questo senso, dimostrare la propria superiorità, screditare il nemico.
Ecco perché possiamo ritenere che a questo grado di tolleranza matura dipenda anche lo smantellamento radicale del sistema di guerra: non ci sarà vera alba si pace se non sarà smantellata anzitutto la belligeranza interiore. Come ha detto Jung, non vi può essere nemmeno autentica coscienza umana senza la percezione della differenza.
di Alessandro Bruni, Valentina D'Ascanio, Giancarlo Zizola