Recensione di Alessandro Bruni.
Il libro di Achille Rossi fornisce un quadro completo del pensiero di Raimon Panikkar nelle sue sfaccettature e nella sua unità. È un libro adatto a chi vuole esplorare i confini tra uomo e senso, tra fede e terminalità, tra etica e condivisione. Si sviluppa partendo dalle prime pubblicazioni in Italia sino alle riflessioni degli incontri e dei convegni a cui Panikkar ha partecipato. Illuminanti la prefazione di Raniero La Valle e la posfazione di Roberto Mancini.
La complessità del pensiero di Panikkar trova chiarezza negli scritti proposti e oggi è molto più comprensibile che in passato, dati i percorsi contemporanei sull'ambiente, sul dialogo, sulle diverse culture e civiltà, sull'ecumenismo. Lucidi e profetici, poi, gli scritti su come pensare la politica, la scienza, la prossimità, la convivialità delle differenze e la cultura della pace.
La cultura della pace ancora oggi si presenta come un'autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un'ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l'aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell'altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l'altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d'odio.
La pluralità culturale in senso panikkariano deve essere intesa come una conquista per l'uomo. È il superamento dell'etnocentrismo, è togliere le maschere, abolire il pregiudizio e dare allo sguardo il significato dell'accoglienza. Lo sguardo dialogante presuppone che la verità e il bene siano sempre al termine di un cammino assieme agli altri e che ciascuno di noi abbia un frammento da ricomporre con quello degli altri. Quando il frammento è pensato come assoluto, e non come parte di un insieme, diventa escludente e fonte di conflitto.
Uomini come Gandhi, Lorenzo Milani, Paolo Freire, Ivan Illich, Danilo Dolci, Aldo Capitini, Alexander Langer e Raimon Panikkar sono persone che hanno trovato vasta eco in trattati, saggi, articoli. Sono persone sempre molto citate, ma poco seguite, permeate come sono di un'aura di sintesi, da espressioni di vedere e sentire globalizzanti che poco si prestano all'esacerbazione del linguaggio sociale attuale, anche perché essendo perfuse di legittimità delle differenze e proponendo la prossimità, si rendono aliene. Sono altamente rispettabili, ma non seguite e tacciate di superficiale sincretismo (fatto che Panikkar ha sempre e ripetutamente negato: per lui il sincretismo è la negazione della diversità).
Panikkar ha avuto questo destino, per questo bene ha fatto Achille Rossi a riproporne una lettura a dieci anni dalla morte. Il suo pensiero è oggi tutt'altro che morto, ma ora come allora vivente, è ancora soggetto a meraviglia utopica e viene usato come “cammeo” per rendere più significativo qualche dotto scritto, ma non per essere vissuto. Nessuno, o pochi, oggi vorrebbero “vivere nel kurta indiano” di Panikkar, come del resto pochi vogliono usare gli “occhiali di Gandhi” per leggere il mondo.
Tutti sanno che quando ci si avventura in un territorio sconosciuto è necessario confidare in esploratori, ovvero in persone che hanno praticato la zona grigia tra i confini ideologici. In questi casi non ci si affida a “chi c'è stato”, ma a chi ha esplorato in comunione di pensiero con l'altro senza opposte negazioni. Tra questi “esploratori simbolo”, Panikkar è stato tra i più genuini e sicuramente tra i più avanzati. Egli ha sottolineato l'ambiguità della parola "religione", che al singolare rappresenta l'apertura costitutiva dell'uomo al mistero della vita, mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose. Egli invita a compiere uno sforzo comune per scoprire uno dei compiti fondamentali e permanenti della religione e della laicità: aiutare l'uomo a raggiungere la sua pienezza senza guerre di potere.
Nella riflessione di Panikkar è altrettanto costante il tema della “crisi di Dio”, quella che lui ritiene la radice del moderno disorientamento. Oggi tutti i teismi sono in crisi: "che si tratti di monoteismo, panteismo, politeismo o ateismo: nessuno di essi è più credibile in quanto tutti sono divenuti strumento di oppressione nelle mani di chi detiene il potere".
Panikkar propone un’etica laica di fede. Un proposito suffragato dal fatto che nel pensiero laico, anche il pensiero religioso può trovare accoglimento e legittimità, infatti l'etica laica non chiede obbedienza e lascia libero l'individuo di credere in ciò che vuole, mentre l'espressione religiosa, se istituzionalizzata, tende verso la deriva fondamentalista, escludendo ogni altro modo di vedere il mondo (si legga in proposito la bella prefazione che Raniero La Valle ha fatto a questo libro).
La fede, religiosa o etica, rende liberi nell'abbraccio trascendente individuale, ma una volta istituzionalizzata, fatta scendere nel governo delle comunità, nella politica, rende schiavi di un conformismo basato su pregiudizi, quindi rifugge dall'anelito di vera scelta individuale di libertà. Questa deriva storica ha portato a pensare alla fede come ad un vestito che si indossa piuttosto che ad un valore interiore. È un conformismo dal quale Panikkar invita a fuggire.
Egli approfondisce l'aspetto mistico del dialogo tra diverse confessioni: i cristiani non possono avere il monopolio della conoscenza di Dio; si tratta, invece, di spiegare come il mistero, che i cristiani chiamano Cristo, si manifesti in altre religioni. Queste non parlano di Cristo, ma hanno diversi simboli cui attribuiscono una funzione salvifica equivalente a quella di Cristo. Al contempo, il “Cristo sconosciuto” delle altre religioni è veramente sconosciuto ai cristiani: quel che rappresenta Cristo nelle altre fedi va confrontato con quello che possono rappresentare i simboli degli altri all'interno del cristianesimo.
Secondo Panikkar solo così, il dialogo spirituale può diventare realmente fruttuoso. Per questo egli auspica incontri non dogmatici, ma semplice condivisione di attività quotidiane poiché i più semplici atti di socialità spesso si rivelano i più importanti e potenti esempi di dialogo soprattutto perché fondati sulla spontanea mutua fecondazione come sintesi ideale del dialogo nel pluralismo antropologico-culturale moderno (in questo fa fede l'opera di Enzo Bianchi nella comunità di Bose).
Panikkar considera il dialogo fra tradizioni lontane una via obbligata per i nostri tempi dato che reputa inevitabile un cambio radicale di civiltà nel senso dell'humanum, per scongiurare una catastrofe di proporzioni planetarie (si pensi alle pandemie presenti e future). Dialogando con gli altri, i cristiani possono scoprire ricchezze insospettate nella loro stessa religione dato che spesso l' ospitalità è la strada della verità. Il dialogo fra religioni, infatti, libera le energie spirituali dalle rigidità dottrinali e crea nuove connessioni che superano tutti i confini: da qui passa la via verso una nuova religiosità, le cui forme sono da trovare.
Panikkar è convinto che quello spirituale sia la chiave di volta per ogni altro tipo di dialogo, anche politico, sociale, etico. Un dialogo aperto fra persone che abbiano a cuore le domande fondamentali sulla realtà può coinvolgere chiunque, scavalcando le divisioni ideologiche o filosofiche. Mai come in questo momento storico vi è stata la necessità di rompere vecchi modelli di pensiero con un nuovo paradigma che abbia meno impianto teorico rigido da un parte e dall'altra che si basi sull'incontro fisico del vivere quotidiano.
Una via, quella indicata da Panikkar, che alterni o combini pragmaticamente funzione e scopi che l'individuo intende conseguire. Una via che si inquadra nell'attuale lavoro di autoriflessione sui propri fondamenti, responsabilità e collegamenti multietnici, che sotto la pressione della lotta di potere in atto, prendano decisioni nuove con coraggio.
Abbiamo avuto alcuni squarci in questa direzione: nella missione di Mandela, nelle parole del Dalai Lama, nella presidenza Obama, nel papato di Francesco. Ora tocca a noi trovare nuove chiavi interpretative dei rapporti tra le culture e sostenere un'idea di pluralismo paritetico nelle reciproche libertà e prerogative, avendo ben compreso che le mie prerogative non devono essere limite alle tue libertà. La comprensione dell'altro è un problema scottante ed irrisolto del nostro tempo, che sia un avversario politico o qualcuno di diversa mentalità, un popolo di un'altra etnia, un cristiano di un'altra confessione, un esponente di un'altra cultura.
Personalmente ho affrontato questa recensione con qualche emozione perché il pensiero di Panikkar, già trent'anni fa ai tempi del Concilio Vaticano II, mi ha portato ad un mutamento spirituale nell'abbandono di vecchi paradigmi stereotipati tra religione e coscienza. La mia avventura personale mi ha portato a scelte spirituali e materiali che mi hanno cambiato la vita. Non sto dicendo che Panikkar era un santo che mi ha illuminato e ma che era un uomo che peccava come me. Egli, però, in modo originalmente personale, da buon tutore non dice “seguitemi sul navigatore”, ma “andate con la bussola della vostra coscienza”. Come lui dovremo saper distinguere la complessità della nostra natura umana e saperla collocare in un disegno non esclusivo di prossimità operativa. Panikkar ha dato risposta alla poesia di Bukowshi “Essi, tutti lo sanno” (Poeticamente, madrugada.blogs) e in particolare al verso “Chiedete alle foglie sulle quali camminate”. Un chiedere personale nel rispetto degli altrui cammini su altre foglie. Un libro questo che mi tocca facendomi rivivere le tappe personali verso una pacatezza attiva più vicina al fare che al dire, più di prossimità cosmica incerta e indifesa che di microambiente certo e strenuamente difeso. Panikkar dice: “a ciascuno la sua strada, purché si cammini insieme”.
scritto da Alessandro Bruni