Nota di Alessandro Bruni. Si riprende qui brevemente il tema dello ius sanguinis e dello ius soli che, dopo le fiammate di discussione di qualche tempo fa, è ora lasciato cadere dallo scenario politico e del diritto di cittadinanza. Un vizio italico ricorrente, sperando che il tempo porti a semplificazioni che si traducano in normative facilmente applicabili. Invece è vero il contrario, più si nasconde sotto il tappeto il problema più questo diviene complesso dato che il concetto di cittadinanza nel mondo diviene sempre più dinamico e liquido con derive storiche, con pulsioni futuriste, con distopie slegate dal costume e dalla vita reale. Le normative in merito così ritardate e (a “babbo morto”) non servono né a stabilizzare una situazione già attuale, né a dare previsione e percorso di raggiungimento fattuale da parte di cittadini immigrati.
sintesi di Alessandro Bruni dell'articolo scritto da Gianluca Bascherini, pubblicato in Diritti umani e diritto internazionale (ISSN 1971-7105) Fascicolo 1, gennaio-aprile 2019
Storicamente si è o si diventa cittadini di uno Stato sulla base del valore che in una data esperienza costituzionale acquista il discendere da cives o il nascere nella civitas. Queste unità di misura dello status civitatis rimandano a tradizioni, culture giuridiche e visioni della comunità politica molto diverse tra loro.
Lo ius sanguinis definisce un’appartenenza del cittadino allo Stato fondata sui legami etnici o familiari e configura il popolo quale entità etno-culturale, naturale e pre-politica, che non costruisce ma abita uno spazio politico che risulta assiologicamente prioritario rispetto ai singoli consociati.
Lo ius soli, invece, definisce la cittadinanza quale conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul territorio di un determinato ordinamento; in questa prospettiva, l’individuo precede la comunità e il popolo si configura ‘artificialmente’, su un piano etico-politico.
Sangue e suolo rimandano, dunque, a diversi “discorsi della cittadinanza”: a differenti rappresentazioni del soggetto e dei suoi rapporti con l’ordine politico e sociale in cui si trova inserito, evidenziando le connessioni che legano la storia dell’idea di cittadinanza alla storia costituzionale e alla stessa storia del diritto.
Approssimativamente, può dirsi che il sangue rinvierebbe a una tradizione più escludente, mentre il suolo a una tradizione più inclusiva. Detto altrimenti, se il discorso della cittadinanza, nel suo rifarsi al suolo o al sangue, è indubbiamente chiamato a definire il senso politico di una comunità, la misura dell’appartenenza, l’idea di popolo e i rapporti tra singoli, comunità e ordine, è anche vero che le effettive discipline della materia non si limitano a fotografare e a normare una o l’altra idea di nazione, ma sono chiamate a risolvere questioni più specifiche, dettate dai tempi e dai contesti.
Questa ‘sdrammatizzazione’ del sangue e del suolo non intende sminuire la valenza di tali criteri ai fini di una ricostruzione delle principali coordinate concettuali della cittadinanza nelle diverse esperienze, quanto piuttosto evidenziare la natura aperta e dinamica della cittadinanza, come concetto e come istituto.
Sangue e suolo darebbero luogo più che a ‘modelli’ a ‘canoni’ della cittadinanza. In altri termini, il discorso della cittadinanza opera sul piano cittadino/straniero, ma esso storicamente è stato oggetto di contesa, anche sui terreni della schiavitù, del genere, della classe, del credo religioso e così via, acquisendo in questi processi valenze che ne arricchiscono la portata propriamente ‘costituzionale’.
Lo scenario italiano dei rapporti tra migrazioni e cittadinanza si rivela peraltro particolarmente complesso. Se le maggiori questioni per quantità e qualità oggi vengono evidentemente dal versante delle immigrazioni, ulteriori dinamiche attraversano e complicano il panorama. La disciplina sul voto degli italiani all’estero ha significativamente contribuito ad allontanare la rappresentanza politica dagli interessi e dalle persone che effettivamente abitano quello spazio politico.
Poi, ci sono i cittadini ‘latenti’, i discendenti di emigrati, la cui italianità il legislatore auspicherebbe si risvegliasse giusto in qualche campione dello sport, mentre le statistiche registrano un incremento ormai trentennale delle richieste di cittadinanza (con tutto ciò che ne consegue in termini di cittadinanza europea) provenienti da discendenti di italiani emigrati in paesi latino-americani, dovuto prevalentemente alla violenza delle crisi economiche e sociali che si sono abbattute su molti paesi dell’area a partire dagli anni Ottanta e poi, con maggior intensità, nei primi lustri del nuovo millennio. Anche queste dinamiche confermano gli esiti paradossali cui perviene la disciplina italiana della cittadinanza, pensata invece quale strumento nelle mani dello Stato per attivare secondo convenienza questi legami transnazionali.
Inoltre, gli italiani stanno ricominciando a emigrare, in misura ben più contenuta che in passato – ma comunque crescente – e con modalità e prospettive molto diverse dal passato. Di questa nuova emigrazione si parla poco, e comunque con quel tot di retorica, necessaria ad ammantare un certo imbarazzo. Eppure, la Brexit evidenzia con quanta facilità si possa tornare a essere ‘l’immigrato di un altro’, confermando la complessità delle questioni e dei conflitti che oggi nello spazio europeo si giocano dietro le migrazioni e i loro rapporti con la cittadinanza.