di Mirko Claus e Federica Viola.
Al termine del 2020 possiamo con certezza dire che la pandemia in corso ha mantenuto alta l’attenzione sulla sanità italiana, facendo luce su problemi strutturali, organizzativi e tecnologici che per troppo tempo sono rimasti inascoltati.
La carenza di medici specialisti rappresenta senza dubbio uno di questi. Nonostante se ne parli da molto e spesso siano state evidenziate delle criticità quali la sofferenza dei pronto soccorso e l’inadeguatezza del turnover a fronte dei pensionamenti previsti, in questi ultimi anni abbiamo assistito solo a timidi tentativi di arginare il problema. L’emergenza sanitaria in atto ha obbligato però a una più ampia riflessione in merito e ha costretto la politica e gli attori istituzionali coinvolti ad affrontarlo.
L’inadeguatezza programmatoria, esplosa durante questa pandemia, già ne minava però le fondamenta: un decennio di cospicui tagli lineari ha condotto a riforme che, se da un lato, hanno reso più efficiente il sistema, dall’altro lo ha fatto sulla pelle del personale sanitario, che dopo anni e complice il perdurare della pandemia è stremato.
Dal nostro punto di vista sembra chiaro però che le soluzioni adottate ad oggi per contrastare queste difficoltà non possano e non debbano diventare la norma: l’utilizzo indiscriminato di medici neolaureati e specializzandi con contratti precari nei reparti covid per esempio, qualora dovesse diventare strutturale e finalizzato esclusivamente all’assistenza, comporterebbe nel medio-lungo periodo uno scadimento della qualità delle cure.
È sicuramente il momento di agire ora, di dare una spinta forte e necessaria nella direzione dell’integrazione dei servizi con al centro unicamente la persona.
Già ora la formazione dei giovani colleghi ne sta risentendo e il timore che, terminata questa pandemia, tale situazione si fossilizzi è presente e reale. Lavorare in emergenza ha implicato trovare rapide soluzioni alle carenze, ma il rischio – come già vediamo da anni – è che le improvvisate misure temporanee diventino strutturali e definitive per inerzia.
Sul fronte della formazione apprendiamo ancora una volta, purtroppo, che l’incremento dei fondi stanziati
per il prossimo triennio per la formazione specialistica è minimo, se comparato al numero di medici neolaureati e ai fabbisogni di salute della popolazione che si prevedono nel futuro: l’imbuto formativo permane come realtà paradossale – tutta italiana – del nostro sistema. Servono almeno dieci anni per formare un medico, e abbiamo già dimostrato di essere in tremendo ritardo.
La carenza di medici specialisti, dunque, non è affatto inaspettata ed è uno degli elementi che costituisce il puzzle più grande dei problemi organizzativi e gestionali. Non è infatti solo il medico a mancare, sono le condizioni: mancano un adeguamento degli stipendi che mantengano attrattivo il servizio pubblico e una formazione adeguata ai bisogni presenti e futuri, senza dimenticare la piena valorizzazione del territorio e del suo ruolo all’interno del Servizio sanitario nazionale.
È sicuramente il momento di agire ora, di dare una spinta forte e necessaria nella direzione dell’integrazione dei servizi con al centro unicamente la persona, come la pandemia ha dimostrato essere necessario. Non bastano più i titoli dei giornali, o i proclami: servono azioni concrete e sforzi notevoli per indirizzare gli adeguati investimenti nella qualità della formazione, nell’integrazione dei servizi e nelle politiche per il personale, per poter garantire un Servizio sanitario nazionale in grado di rispondere, grazie ai suoi operatori sanitari, ai bisogni della popolazione.
scritto da Mirko Claus e Federica Viola, pubblicato in Forward del 14 gennaio 2021
segnalato da Alessandro Bruni