di Roberta Borzi.
Con caregiver informali ci si riferisce a coloro che si prendono cura, gratuitamente e per vincolo familiare o affettivo, di un parente non autosufficiente in quanto anziano, ammalato o disabile. La quarantena forzata dovuta alla pandemia di Covid-19 ha, paradossalmente, scoperchiato questo mondo seminascosto di 8 milioni di persone (dei quali neanche un milione è costituito da assistenti familiari domiciliari: collaboratrici domestiche meglio conosciute come badanti). Se, da una parte, con i primi Dpcm l’attività di alcuni servizi per anziani e disabili veniva sospesa, dall’altra i genitori di figli con disabilità grave vedevano incrementarsi i congedi parentali straordinari di una manciata di giorni.
Ma le incombenze che pesano sui prestatori di cure e assistenza ai familiari, per lo più donne, sono molteplici e vanno dalla preparazione e somministrazione di pasti e farmaci, alla pulizia personale e della casa; dalla sorveglianza, al disbrigo delle questioni amministrativo-burocratiche, come il ritiro delle ricette, il pagamento delle bollette, l’accompagnamento del congiunto negli uffici pubblici o in ospedale per le visite mediche, la richiesta e l’acquisto di protesi e via dicendo. Mansioni da cui non solo non è possibile prendersi una vacanza, ma che vanno a complicare la già precaria conciliazione femminile dei tempi di vita familiare e professionale, rendendo spesso necessario a queste mogli, madri, figlie, sorelle e nuore lasciare l’impiego “ufficiale”. E alle quali si sono aggiunte, nell’ultimo anno, la pesantezza della solitudine e la pandemic fatigue, termine coniato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per indicare la sensazione di stanchezza e sfinimento dovuta alla pandemia.
Le conseguenze sono riassumibili nella cosiddetta sindrome di burden, simile ma meno nota di quella del burn-out: il burden o carico del caregiver consiste in un sovraccarico fisico ed emotivo dovuto allo stress costante cui si è sottoposti nell’assistere un parente gravemente malato o disabile e può manifestarsi con sintomi quali insonnia, irritabilità, rabbia e frustrazione, senso di colpa e depressione. Una condizione che, se protratta, inevitabilmente e negativamente influisce anche sulla persona accudita. Per gestire la tensione, le somatizzazioni dello stress e il dolore, il caregiver potrebbe fare ricorso a strategie di fronteggiamento non sempre funzionali, come abusare di farmaci e psico-farmaci, soprattutto nei casi in cui vive da solo con la persona da assistere e manca di un adeguato supporto economico e relazionale. Fino ad ammalarsi a sua volta, lasciando da solo l’anziano o la persona con disabilità che dipende totalmente dal suo aiuto, grave fattore di rischio di emarginazione sociale.
A differenza di chi svolge attività di assistenza e cura nell’ambito di strutture ospedaliere, residenziali o semi-residenziali dedicate ad anziani e disabili, i caregiver informali di rado possono accedere a interventi di prevenzione del burn out sistematici e organizzati, specificatamente pensati per chi svolge una professione di aiuto. Ma si può provare a ricucirsi degli spazi e del tempo solo per sé svolgendo, ad esempio, un’attività sportiva o meditativa e a ritrovare una dimensione di socialità, cercando e partecipando a gruppi di supporto e confronto per familiari di persone malate o disabili, se attivi nel proprio territorio; o contemplando la possibilità d’intraprendere un percorso di sostegno psicologico, privatamente o presso i servizi di salute mentale locali.
scritto da Roberta Borzi, pubblicato in Istituto Beck del 8 gennaio 2021
sintesi di Alessandro Bruni
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