a cura di M.F. di Fondazione Leonardo.
Una rivisitazione di tre sentimenti complessi attraverso tre film che fanno pensare al bisogno di relazione dell'uomo e ai risvolti niente affatto banali che suscitano in modo diverso ed originale in ogni persona. Sono film da rivedere con animo leggero come leggera deve essere ogni esplorazione dei propri sentimenti (Alessandro Bruni)
1. Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera, 2003 di Ki Duk Kim con Oh Yeong-su, Kim Ki-Duk, Young-min Kim (II), Seo Jae-kyeong, Ha Yeo-jin, Kim Jong-ho.
La prima opera che viene suggerita dal titolo, che evoca in sequenza colpa, espiazione, riconciliazione, è il lavoro del coreano Ki-Duk Kim. “Primavera, estate, autunno, inverno...e ancora primavera”. L’autore sembra suggerire che l’alternarsi delle stagioni in una sequenza infinita abbia qualche corrispondenza con l’avvicendarsi delle passioni nella natura umana.
Vediamo così l’innocenza di un bambino affidato all’educazione di un vecchio monaco all’interno di una capanna galleggiante su un laghetto in mezzo ai monti. Segue l’estate con la scoperta della passione carnale, quindi l’autunno con la gelosia che sfocia nel gesto omicida. Ci fermiamo qui per non sottrarre ad alcuno il piacere di questa pellicola, straordinaria anche per la bellezza delle immagini. Ci interessa, però, la colpa e le sue conseguenze. Immaginiamola come uno sforzo fisico: la fatica di trascinare una pesante pietra fino al culmine di una collina. Qualcuno la pensa diversamente, per noi questo sfibrante esercizio è metafora dell’espiazione.
2. Ogni cosa é illuminata, 2005 di Liev Shreiber con Elijah Wood, Boris Leskin, Eugene Hutz, Laryssa Lauret, Jonathan Safran Foer.
La stessa che ha vissuto Baruch durante tutta una vita, dalla giovinezza alla vecchiaia, macerandosi nel silenzio. La sua storia, in apparenza secondaria, rappresenta in realtà il nucleo centrale di un’opera, Ogni cosa è illuminata, splendida (non solo) per la ricognizione nei paesaggi nell’Ucraina di oggi.
Tutto ha inizio quando Jonathan, un giovane americano collezionista di souvenir, ingaggia un nonno, la sua cagnetta “degenerata” e il nipote Alex come guide per un viaggio in Ucraina. Destinazione Trachimbrod, villaggio dal quale il nonno di Jonathan partì un giorno lontano per mettersi in salvo dalle atrocità dei nazisti. Il viaggio della combriccola, su una vecchia auto guidata dal nonno collerico, razzista, bisbetico, che si professa cieco e per questo dev’essere assistito dalla cagnetta degenerata, è tutto da godere. La spartizione della patata, gli incontri non sempre fortunati lungo viaggio, le verdi campagne d’un paesaggio finora sconosciuto al cinema commerciale: tutto nuovo, per noi, tutto piacevole. Ma Trachimbrod non si trova. Finché lo spettatore, folgorato da un campo di girasoli e stordito dall’esplosione di un coro femminile che irrompe nel silenzio, capisce che siamo arrivati. Alex, il giovane nipote addetto alle informazioni, attraversa il campo di girasoli e arriva al cospetto di una vecchia intenta a lavare i panni davanti a una casupola. “Trachimbrod?” chiede il giovane. Lentamente la donna solleva il capo e dopo un silenzio non breve risponde: “Trachimbrod sono io”.
Nella casa della vecchia donna, unica ancora in vita tra i pochi scampati alla strage, c’è un intero archivio di memorie. Oggetti appartenuti agli oltre mille abitanti del paese e, soprattutto, ricordi. Di quando Augustina, sorella della vecchia donna, era fidanzata con Safran, il nonno di Jonathan, che partì per l’America giusto in tempo per salvarsi; di quando i nazisti vennero e pretesero che si sputasse sulla Torah e dal rifiuto iniziò il massacro; di quando Baruch, scampato miracolosamente alle pallottole, si rialzò dal cumulo di cadaveri e gettò via la casacca con la stella di David. E sapremo che proprio lui, il Baruch di allora, non è altri che il nonno autista, bisbetico e razzista, che ha portato questo segreto per tutta la vita e, potendosene liberare, può andarsene serenamente.
Dopo la “folgorazione” dei girasoli un altro momento alto di questo film, senza stonature, riesce a commuovere e far sorridere. Siamo sulla via del ritorno, siamo sul greto del fiume fatale mentre la luna piena illumina il paesaggio notturno. Il giovane Jonathan si china a raccogliere un pugno di sabbia da conservare nel suo sacchetto di collezionista: ma non si ferma lì, ne riempie un altro di sacchetto e in silenzio lo porge al vecchio autista Baruch, del quale ha intuito il tormento.
Poco tempo dopo lo vedremo per l’ultima volta, il vecchio, disteso nella vasca da bagno d’un alberghetto sulla strada del ritorno; lo vediamo con le braccia quietamente poggiate sui bordi della vasca, immerso nell’acqua tinta di inequivocabile rosso. Senza un moto di repulsione, in noi, perché il suo viso comunica con certezza la pace. La pace di chi, per una colpa non sua, ha espiato con il silenzio tutti i giorni della vita.
3. Una storia vera, 1999 di David Lynch, con Sissy Spacek, Harry Dean Stanton, Richard Farnsworth, Everett McGill, Jane Galloway Heitz.
Riconciliarsi con un gesto estremo in una vasca da bagno non è la scelta di Alvin Straight che, avendo litigato furiosamente con Lyle, il fratello, non lo vede e non lo sente da dieci anni. Arriva l’infarto, tradizionale annunciatore di scadenze, e Alvin decide di andare dal fratello a tentare di far pace. Ma Lyle vive in un altro stato, a centinaia di chilometri di distanza e Alvin non ha l’automobile e non ha la patente. Così si mette in viaggio a bordo di un tosaerba, riscuotendo incredulità e derisione nei tanti paesi che attraversa nel lungo viaggio. Ogni incontro, a cominciare da quello con la ragazzina incinta fuggita di casa, è un prezioso cammeo che suscita meraviglia, soprattutto pensando alle storie tetre, a volte torbide, raccontate da David Lynch, l’autore, nelle precedenti produzioni. Qui si tratta di Una storia vera raccontata con una mano talmente leggera da farci pensare al racconto di un bambino.
A mano a mano che il viaggio procede si fa palese il dolore per quel lungo silenzio, dieci anni per un niente. “Non mi ricordo più neppure il motivo di quella lite. E con lui passavo, fin da ragazzo, lunghe ore a chiacchierare guardando le stelle”.
Alla fine, quando Alvin, al termine del viaggio, davanti a una catapecchia cadente, chiama il fratello “Lyle” una prima volta con voce sicura e, un attimo dopo, “Lyle...” con la voce strozzata dall’angoscia di non trovarlo vivo, siamo certi che il vero protagonista della storia è il senso di colpa. La peggiore delle compagnie, forse, per tutti quei vecchi che ne avvertono tanto più il tormento, quanto più sentono avvicinarsi la fine.
Con un sollievo che da Alvin si trasmette allo spettatore, vediamo il fratello comparire sulla porta della casupola, curvo su un deambulatore, malridotto ma vivo.
“Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?”
“Sì, Lyle”
Altre parole non servono, ma partono le note struggenti di chitarra, solo quattro note di un certo Angelo Badalamenti (questi americani!), da non perdere, nel silenzio.
Il crepuscolo lascia spazio a un cielo nero punteggiato di stelle. Seduti sulla stessa panca, le spalle poggiate al muro della stessa casa, due fratelli, in silenzio, a guardare il cielo stellato.
scritto da M.F., pubblicato in Fondazione Leonardo del 04 febbraio 2021
segnalato da Alessandro Bruni