di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Democrazia rappresentativa o democrazia delle comunità?
Il CUM, un Consorzio di agricoltori di Massenzatica (Mesola-FE) che gestisce 353 ettari di terreno agricolo come “bene collettivo” ereditato mille anni fa dal vescovo di Pomposa (un terzo modo di possedere, né pubblico né privato), dopo aver vinto il primo premio per il paesaggio in Italia, ha ottenuto la “menzione speciale” in Europa.
Una sorta di primo premio ex equo con un'altra buona pratica presentata dalla Svizzera. A parte l’enorme soddisfazione per l’Italia (e i “ferraresi”), l’eccezionalità del CUM sta nel fatto che da un’area “marginale”, interna (Delta del Po) viene una proposta non solo di mera tutela del paesaggio, ma di sviluppo socio-economico che, sovvertendo le regole del “capitalismo profit”, mostra come sia conveniente (per uomini e natura) coniugare la parte migliore del “socialismo” con quella migliore del “capitalismo”.
I beni collettivi del CUM sono regolati dal diritto pubblico per cui, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, è stato possibile anche per le donne (ancora escluse invece nelle partecipanze a diritto privato) ereditare la terra, partecipare alle elezioni ed essere elette. La concessione del 20% di terre in affitto a privati (Zanzi vivai) non si è basata solo sul ricavare il massimo affitto monetario, ma negoziando che mogli e figlie disoccupate della comunità fossero assunte per prime; e i soci agricoltori vengono stimolati ad investire riducendo il loro canone di affitto.
Si è passati così dalla cultura dell’interesse personale a quello di comunità (dall’io al noi) e ciò ha consentito un forte arricchimento non solo monetario di tutti i soci, ma una crescita degli occupati (specie giovani e donne), dell’uguaglianza (oggi le differenze tra chi ha di più e chi meno si sono molto ridotte), ad una prosperità dove sono prioritarie le relazioni sociali, il mutuo aiuto, la cultura e il paesaggio dove si vive.
Il CUM è anche un modo vivo e nuovo di fare democrazia, usando la partecipazione e pone, indirettamente, una sfida enorme ai partiti e alla democrazia rappresentativa (oggi in profonda crisi), in quanto i partiti non si fondano più su masse di aderenti e di partecipazione. E’ il motivo per cui, credo, fallì nell’immediato dopoguerra la proposta di “democrazia comunitaria” di Adriano Olivetti. Allora i partiti erano “grandi”, partecipati attivamente e non vedevano di buon occhio una democrazia che si alimentasse anche della partecipazione di “comunità concrete” che erano un altro modo di partecipare (di competenti ma anche selezionati dalla comunità e dal fare).
Oggi che la democrazia rappresentativa è molto debole, dovrebbero i partiti per primi vedere con favore una “integrazione” dalla “democrazia di comunità”. Istituzioni e partiti dovrebbero ridare centralità (dopo Draghi) a ciò che si muove in “basso”, alle periferie, alle aree interne, alle associazioni, a quei luoghi “piccoli” dove sono ancora visibili i nessi che fondano la civiltà, le relazioni sociali, la partecipazione viva. Le vie sono tante.
In Germania c’è una camera (Bundesrat) dei Länder. Ma si potrebbero selezionare almeno un terzo dei politici tra quei cittadini che si impegnano in quanto tali, e non per ambizioni o scambi di potere e che hanno dato prova di ciò lavorando per molti anni in associazioni non profit. Dopo aver dato troppo spazio ai grandi flussi globali che hanno prodotto disuguaglianze, degrado ambientale e sociale, una urbanizzazione di mega city e un accentramento che ha desertificato le periferie, è venuto il momento (anche per la politica e i partiti) di cambiare radicalmente. “Mai l’umanità è stata di fronte a un’alternativa così radicale: cambiare o perire” (Heiner Geiϐler, già ministro Cdu).
Lo sviluppo per grandi poli che produce eco-disastri e desertificazione (sia come abitanti che come votanti) va contrastato ritornando ad uno sviluppo per reti, dove le città metropolitane non crescono più, diventano di servizio a quelle medie e piccole e queste, a loro volta, aiutano i paesi e le campagne attorno. Del resto è questa l’ossatura storica dell’Italia. Insieme a questo “riordino” urbanistico e dello sviluppo, deve procedere una nuova forma di democrazia che sale dal basso e integra quella rappresentativa. Non basta dirsi europeisti o sovranisti (slogan ormai vuoti ai più). Occorre ricostruire le comunità locali, una sovranità locale di comunità, su cui innestare reti di comunità e una democrazia che non sia solo poter votare ogni 5 anni questa o quella lista di candidati (un po' poco come democrazia).
scritto da Andrea Gandini