di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
E’ molto probabile che la prima grande modifica della scuola sarà il potenziamento degli ITS, percorsi di 2 anni post diploma nati 10 anni fa (progettati da Scuole, Università e Imprese) che attualmente licenziano 3.530 diplomati, dei quali l’83% trova lavoro a un anno dal diploma in “ruoli” (non più mansioni, come si dice oggi) specializzati molto richiesti.
E’ questo l’unico percorso non universitario che esiste in Italia, il quale si sottrae da anni alle indicazioni europee (e alle buone pratiche di altri paesi) nel crearlo. In Italia abbiamo solo 20mila iscritti rispetto ai 400mila della Francia (brevet, diplôme de technologie) e al milione della Germania (Fachhochschule), presenti, peraltro, in quasi tutti i 36 paesi Ocse e che sono una delle ragioni per cui l’Italia è (con la Romania) all’ultimo posto in Europa per educazione terziaria (lauree e post diplomi non universitari).
La centralità data all’Università e la scusa di mandare tutti i giovani all’Università (per non discriminare) penalizza di fatto quella fascia (spesso più povera) che non può sostenere corsi lunghi o più vocata a percorsi sperimentali e professionalizzanti (meno teorici) che in Italia sono giudicati da 40 anni “minori” (sbagliando). Il precedente Governo aveva già immaginato 1,5 miliardi del Next Generation (rispetto ad una spesa annua di 150 milioni, cioè 10 volte superiore) ed è difficile pensare che Draghi e Bianchi, che conoscono bene le imprese (e i giovani) cambino idea.
Ovviamente anche gli ITS avrebbero bisogno di un “tagliando” perché costano molto (circa 250mila euro per un biennio per 15 diplomati che, a volte si riduce a 10) e in molti casi l’intero secondo anno potrebbe essere trasformato in un apprendimento situato in azienda con un tirocinio-praticantato-lavoro di 12 mesi, introducendo, alla fine del primo anno di studi, quella “scelta reciproca” tra studente e impresa che abbiamo sperimentato nel PIL (Percorsi di Inserimento Lavorativo a Unife) e che è di grande beneficio per entrambi. E’ questa anticipazione del rapporto lavoro-studente nell’ultimo anno di studi che elimina il fenomeno dei NEET (quando sono fuori dal percorso di studi diventa infatti impossibile recuperarli).
Ma la vera riforma (in questo ambito) sarebbe quella dei Professionali e Tecnici (oltre un milione di diplomati) che potrebbero vedere potenziata la parte che riguarda l’alternanza scuola-lavoro (dimezzata invece dal Governo Conte), con l’inserimento di una nuova figura (docente di sostegno o di accompagnamento) e soprattutto con una nuovo servizio post-diploma da iniziare già nell’ultimo anno, che veda un inserimento in imprese scelte dagli stessi studenti, in modo da portare al primo lavoro entro 12 mesi non il 50% dei diplomati ma l’80% come avviene negli ITS. Questa via non significa cedere ad un’ottica professionalizzante delle imprese, ma dare conoscenze vere ai giovani diplomati che poi serviranno per “navigare” dove vogliono e aiutarli nella difficile transizione dallo studio al lavoro (varcare soglie).
Si potrebbe poi avviare gradualmente un modo nuovo di insegnare (la formazione dei docenti è fondamentale) in cui si supera l’attale ”incapsulamento dell’apprendimento scolastico” che potrebbe avvenire non solo in classe col metodo frontale (e del libro), ma con un metodo “situato e cognitivo” basato su più laboratori, apprendimenti da sperimentazione e da esperti esterni (la comunità educante), diventando più efficace, reale, meno “fittizio”. L’interazione sociale è il più potente motore di qualunque forma di apprendimento (sia dentro che fuori la scuola) e “quello che oggi sappiamo fare insieme, domani impareremo a farlo da soli” (Vygotskij 1934).
Ciò implica che per la prima volta le risorse destinate a queste scuole (dove vanno oggi quasi metà degli studenti, spesso i più poveri) siano maggiori di quelle dei Licei.
Sono infatti queste scuole che devono adattarsi al più complicato compito (rispetto ai licei) di far fronte a quelle intelligenze multiple (e meno teoriche) dei propri studenti che hanno scelto apposta questo scuole, anziché zavorrarli con una imitazione insulsa dei licei, perché quegli studenti vogliono apprendere non con un approccio da Istruzione ma dai processi reali, della vita e del lavoro ed entrare così in vera competizione con i licei. Viceversa saranno sempre scuole pensate dal Ministero (e dagli stessi genitori) come di serie B.
Cambiare il metodo di apprendimento è dunque davvero la sfida (enorme).
scritto da Andrea Gandini