di Francesco Cecchini, cittadino dell'altro mondo.
Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria. (Antonio Gramsci)
Leonardo Sciascia è stato un grande e prolifico scrittore, straordinariamente acuto e lungimirante con L’Affaire Moro. La sua analisi del drammatico rapimento, prigionia e assassinio di Aldo Moro è notevole. Il suo è un lavoro letterario, ma anche un’indagine, che racconta una delle pagine più oscure e dolorose della storia italiana. L’Affaire Moro è stato pubblicato prima da Sellerio nel 1978 e poi anche da Adelphi e da Bompiani. Da notare che fu pubblicato prima in Francia e poi in Italia. Ora i libri di Leonardo Sciascia sono distribuiti nelle edicole da La Repubblica. L’11 febbraio è uscito in edicola ” L’Affaire Moro”. Un’ottima occasione per leggerlo o rileggerlo.
In un’ intervista rilasciata nel 1979 a Marcelle Padovani, una giornalista francese attiva dagli anni 1970 in Italia, nel libro La Sicilia come Metafora, Sciascia in merito a “L’Affaire Moro” ha dichiarato:
L’ ho scritto non già perché mi sentissi colpevole di non aver detto niente, ma perché, a partire di un dato momento, ho sentito che avevo qualcosa da dire. Mi sono interessato a Moro spinto dalla mia vecchia idea che bisogna ricercare la verità. La sua è una storia terribile, non solo a causa della tragica fine toccatagli, ma anche perché è stata sommersa da un mare di retorica e mistificazione. Mi sembra che si sia voluto modificare l’ immagine di quest’ uomo proprio in ciò che aveva di più umano. Può darsi che Moro prigioniero delle Brigate Rosse abbia avuto paura. Può darsi che pensasse solo a soprattutto a sopravvivere. Ma si è sempre comportato come l’ uomo che era stato: perché pretendere che fosse cambiato? Insomma ho voluto scrivere un libro più religioso che politico.
Libro religioso, dunque, che è anche un’opera di verità, in quanto Sciascia stesso affermò: ” è soltanto una cruda e nuda ricerca della nuda e cruda verità.”
Il centro della ricerca furono le lettere scritte da Aldo Moro a parenti, amici e colleghi politici durante i 55 giorni da prigioniero delle Brigate Rosse. Sciascia fa una lucida analisi. Scrive che Moro si è trovato a vivere un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. E la tragedia nella tragedia è che gli altri, gli amici all'esterno, non fecero alcuno sforzo per capirlo.
Moro che da un lato fu innalzato al ruolo di grande statista facendone così un simbolo, che in quanto tale era sacrificabile sull'altare della ragion di Stato e dall'altro fu ripudiato dai compagni di partito che giudicavano le sue lettere, via via più violente nei toni, come frutto di plagio e costrizione da parte dei brigatisti.
Sciascia analizza non solo le lettere di Moro, ma anche i comunicati delle Brigate Rosse, le prese di posizione del PCI, della Democrazia Cristiana e del Governo. Riguardo ai primi, tra l’altro, scrive sul comunicato numero 6, che annuncia la conclusione del processo e la condanna di Moro, l'impressione di un momento di inquietudine, di incertezza, di indecisione: pur nella terribile decisione della condanna a morte, quello in cui i brigatisti annunciano la conclusione del processo proletario.
Riguardo gli scritti dei democratici cristiani e del governo, mette in rilievo una nota scritta di proprio pugno da Giulio Andreotti, allora Presidente del Consiglio, che per Sciascia, è di un uomo che scrive una sentenza, il simbolo di una scrittura che ha effetto sulla realtà, ovvero quella del potere, che è potere di morte.
Secondo Sciascia Moro era stato condannato a morte direttamente dalle Brigate Rosse e indirettamente dalla DC e dallo Stato. La sua posizione in generale è stata simile a quella assunta allora dal giornale Lotta Continua: né con le Brigate Rosse, né con lo Stato.
Il punto di vista brigatista sulla drammatica vicenda è stato espresso nel 2007 da Mario Moretti in un’ intervista a Rossana Rossanda e a Carla Mosca, dove alla domanda: ”Per salvare Moro hai detto che bastava che uno dello Stato ammettesse: sì in Italia vi sono dei prigionieri politici, dunque c’è un soggetto politico con il quale dobbiamo trattare. Non era un riconoscimento?
Hanno risposto:
Sarebbe stata l’ammissione di uno stato di fatto, niente di più e del come uscirne per una via che non fosse la guerra. Dal momento in cui si fosse detto, soprattutto da parte comunista “Fermi tutti, ragioniamo”, sarebbe stata un’altra storia. Confermando così cosa aveva affermato 29 anni prima Leonardo Sciascia in ”L’ Affaire Moro”.
scritto da Francesco Cecchini, pubblicato nel blog dell'autore il 16 febbraio 2021
segnalato da Alessandro Bruni