di Marco Cattaneo. Giornalista e editorialista di Le Scienze e Mind.
Ebbene io, ve lo confesso, non vorrei più parlare di questa pandemia. Come voi che mi leggete, come tutti, sono sfinito da quello che ormai è quasi un anno di restrizioni, di home working, di immobilità.
Ma soprattutto – siamo ancora più sinceri – di solitudine, di lutti, di paure. E come tutti vorrei cancellare quell’incertezza del futuro che ci dilania, finché abbiamo ancora memoria del nostro ieri, un passato prossimo fatto di viaggi, incontri, relazioni. Ma l’emergenza COVID-19 ci chiama ancora a un’attenzione che fatichiamo a sostenere.
Nelle ore in cui scrivo queste righe, il conto dei contagi a livello globale sfiora i 100 milioni e oltre 2 milioni sono i morti: 82.177 solo in Italia. Sono più degli abitanti di Grosseto, il 65° Comune del paese per popolazione. Frattanto, a farci tirare un sospiro di sollievo sono arrivati i vaccini e a farci tenere di nuovo il fiato sospeso le nuove varianti virali che hanno messo in ginocchio il Regno Unito, l’Irlanda, il Brasile.
E nel turbine di comunicazioni che ci travolge continua a trovare terreno fertile la disinformazione. Di recente, in una discussione da social network, mi è capitato di assistere alla strenua difesa di un’idea secondo la quale le epidemie, sì, ci sono sempre state, ma non è che sollevassero tutto questo polverone. Come se non fossero stati spesi milioni di pagine di letteratura, da Tucidide a Philip Roth, passando per Boccaccio, Manzoni e Daniel Defoe, a raccontare gli effetti della peste fuori e dentro di noi. Ne parliamo diffusamente in queste pagine, delle pandemie dell’antichità o del recente passato, con un articolo di James Close che illustra da una parte i rivolgimenti politici, economici e sociali prodotti dall’improvvisa diffusione di malattie infettive e dall’altra dei metodi con cui si sta cercando di individuare quali agenti patogeni le abbiano provocate. E poi con una ricostruzione di Arnaldo D’Amico delle violente esplosioni di colera che hanno flagellato il pianeta dall’Ottocento ai giorni nostri.
Anche delle dinamiche con cui prolifera la disinformazione abbiamo parlato fin troppo spesso. Ma la posta in gioco è alta, e gli studi che ne stanno indagando i meccanismi sono sempre più raffinati. Per esempio quelli che ci raccontano Filippo Menczer e Thomas Hills a pagina 34. Che dimostrano, tra l’altro, come il sovraccarico di informazioni a cui siamo sottoposti dai nostri feed sui social media sia già di per sé sufficiente ad abbassare la qualità dell’informazione condivisa.
A questo si aggiungono l’inquinamento da bot (programmi per l'automazione di compiti) e quello che gli autori chiamano "contagio complesso", ovvero la nostra inclinazione a condividere idee a cui siamo esposti ripetutamente, un fenomeno che facilita la diffusione dei contenuti già più popolari. Un like in più che diamo, insomma, non è un fattore neutro. Tende a influenzare altri a metterci il loro, indipendentemente dalla qualità del contenuto. E, per finire, le informazioni virali diventano anche più resistenti alla correzione.
Si chiude, l’articolo di Menczer e Hills, con una riflessione importante. "La comunicazione libera – scrivono – non è gratuita. Abbassando il costo dell’informazione ne abbiamo abbassato il valore e abbiamo aperto le porte alla sua adulterazione".
Quest’epoca travagliata ci ha fatto scoprire la nostra vulnerabilità. Ora si tratta di capire come porvi rimedio, perché il prezzo da pagare non sia troppo alto.
L'editoriale del n.630 di Le Scienze di febbraio 2021
segnalato da Alessandro Bruni