di Paolo Zambaldi, Sguardi alla prossimità e allo spirito.
È la via che intravede l’autorevole teologo valdese Paolo Ricca per una «diversità riconciliata». Le Chiese dovrebbero uscire dal monologo dell’«io basto a me stessa» per stare come in un mosaico, tutte intorno al Signore. Ne parla in un’intervista rilasciata a Vittoria Prisciandaro sul mensile Jesus (1/2021) che riproponiamo integralmente qui.
Professor Ricca, quali sono a suo parere i passi più importanti compiuti finora nel cammino ecumenico tra le Chiese cristiane? E qual è il compito più significativo che abbiamo davanti a noi?
«La cosa più importante è che, seppur lentamente, si sta diffondendo nel cristianesimo in generale la consapevolezza che oggi non si può essere cristiani se non si è ecumenici. L’impostazione in modo ecumenico della vita cristiana sia dei singoli che delle parrocchie, comunque della Chiesa nel suo insieme, è imprescindibile. Se, come fino a un secolo fa, si è cristiani solo in maniera confessionale, cioè ciascuno all’interno della propria confessione, nella migliore delle ipotesi si è cristiani a metà. L’ecumenismo è in fondo un fenomeno recente, iniziato solo nella seconda metà dell’Ottocento: è un processo che avanza lentamente, ma progressivamente in quasi tutte le Chiese cristiane. Il cattolicesimo è entrato in ritardo nel movimento, solo negli anni Sessanta del secolo scorso, ma con la volontà e capacità di strutturare immediatamente l’idea ecumenica, già a partire dal concilio Vaticano II, dando così una continuità e una solidità alla svolta ecumenica in casa cattolica dalla quale non si torna indietro».
Quali sono, invece, gli ostacoli maggiori nel dialogo?
«L’ostacolo maggiore è la lentezza che le Chiese tutte hanno a uscire dalla mentalità del monologo ed entrare in quella del dialogo. Cioè ad abbandonare l’idea dell’autosufficienza, che la propria Chiesa basta a realizzare il cristianesimo. La scoperta ecumenica è proprio questa: una Chiesa, piccola o grande che sia, non basta, c’è sempre un deficit. La mia identità confessionale, qualunque essa sia, è deficitaria rispetto alla realizzazione della pienezza dell’essere cristiano. Siamo vissuti per secoli nella convinzione che ciascuno avesse la pienezza cristiana, oggi la difficoltà maggiore è uscire da questa gabbia e capire che tu hai bisogno dell’altro cristiano per essere cristiano».
Una consapevolezza più che mai urgente, oggi che i cristiani sono chiamati a dialogare con fedeli di religioni diverse in società sempre più pluraliste. Qual è a suo parere il giusto approccio al dialogo interreligioso?
«È evidente che è urgente, ma attenzione, perché se si sovrappone il problema interreligioso a quello ecumenico si crea una grande confusione. L’unità cristiana si fa intorno a Cristo e non intorno a un’idea di unità generale o a un Dio che non ha più il profilo cristiano perché deve essere accettevole a tutti gli altri. Nella logica spirituale il dialogo interreligioso è un momento ulteriore, che va coltivato anche parallelamente a quello intercristiano, ma senza sovrapporre il primo al secondo».
In Italia come è andato il cammino ecumenico?
«In Italia c’era un problema ulteriore: la sproporzione, non solo numerica, tra protestantesimo, cattolicesimo e ortodossia rendeva molto difficile il dialogo ecumenico. Ma devo dire a onore del cattolicesimo italiano nel suo insieme, che questa difficoltà, che era notevole, è stata superata. Ed è una cosa bella che merita di essere detta. Senza dimenticare che qui c’è anche il Vaticano. In altri Paesi si sono fatti più progressi, ma in generale possiamo essere soddisfatti della qualità attuale del dialogo ecumenico, dell’incontro, della fiducia reciproca. In Italia direi che siamo a livelli europei».
Il dialogo talvolta è difficile anche all’interno della stessa Chiesa o famiglia ecclesiale. Quali sono, in proposito, i nodi nel mondo protestante? Cosa spera per il futuro?
«Nella storia del protestantesimo è successo che la pluralità, che era in generale suggerita dalla diversità interna al messaggio cristiano complessivo, è sfociata sovente in divisione. Non si è stati cioè capaci di convivere in armonia senza un Papa, senza un’autorità centrale. Il papato è il modo cattolico di temperare diversità e unità, per cui il cattolicesimo romano ha al suo interno enormi diversità, al prezzo di un’unità centralizzata e ferrea nella sua struttura. Cosa che nel protestantesimo non è mai esistita e non esisterà mai. Il prezzo è stato che la diversità è sfociata in divisione, in una perdita di cattolicità. Paradossalmente questo si abbina al fatto che ciascuna confessione, anche quelle relativamente piccole dal punto di vista numerico, come può essere la Chiesa avventista del settimo giorno, è Chiesa mondiale, ha conservato al suo interno una cattolicità non cattolica. Il recupero della cattolicità è per me un compito ecumenico, una priorità del protestantesimo. Quindi, in sintesi, direi che sono due gli obiettivi: mantenere saldamente l’ancoraggio alla Sacra Scrittura, perché il protestantesimo è nato da lì, come momento di profetismo biblico. E poi, mantenere la diversità liberandosi dalla divisione, inventando un modo storicamente realizzabile, per avere questa “diversità riconciliata”. Probabilmente la soluzione è la conciliarità».
Che cosa significa concretamente? Come immagina questa “conciliarità”?
«La immagino come unità conciliare dell’unica Chiesa cristiana, come nella Chiesa cristiana antica. Il Concilio è stata la prima e fondamentale forma dell’unità cristiana, fin dal cosiddetto Concilio di Gerusalemme, del libro degli Atti, capitolo 15. Le Chiese ortodosse, giustamente, identificano la storia dell’unità cristiana con la storia dei Concili veramente ecumenici, nei quali cioè tutta la Chiesa era rappresentata. Così dovrà essere nel futuro, anche se sono tante le difficoltà per realizzare oggi un Concilio veramente ecumenico. Probabilmente bisognerà partire dalle Chiese locali e da lì, lentamente e pazientemente, costruire o ricostruire una coscienza conciliare della Chiesa andata smarrita nei secoli passati».
Come interpreta il magistero di papa Francesco sotto l’aspetto del dialogo ecumenico?
«Ambivalente. Ha compiuto dei gesti nuovi importantissimi, si è fatto quasi luterano con i luterani, quando è andato ad aprire le commemorazioni dei 500 anni della Riforma nella cattedrale di Lund, con i leader della Federazione luterana mondiale. Cosa che i suoi predecessori non avrebbero mai fatto. Sono cose che resteranno nella memoria della Chiesa. Questo è l’aspetto nuovo, positivo, estremamente promettente. Quello che però mi lascia un po’ perplesso è il fatto che non ha modificato in nulla la dottrina. Il Concilio, ad esempio, parla di “fratelli separati”. Collocato nel suo tempo era un passo avanti enorme. Ma oggi quella formula non va più, non descrive più la realtà, non si può più parlare così. Così come l’espressione delle Chiese protestanti chiamate “comunità ecclesiali”, che non vuol dire nulla o peggio significa Chiese a metà… Come si fa, con Chiese che hanno avuto centinaia di martiri… Oggi queste espressioni andrebbero cambiate, erano cose che a quel tempo erano un passo avanti; ma oggi, che abbiamo fatto altri passi, vanno superate. Bisogna descrivere la situazione attuale. Il Papa stesso non pensa in termini di “fratelli separati”, non agisce così. Allora lo dica. Per questo dò un giudizio ambivalente. Anche perché potrebbe venire un altro Papa e dire che nulla è cambiato: così resteremmo al Vaticano II, che sarebbe un tornare indietro».
Si parla spesso del cosiddetto «ecumenismo del sangue». Le persecuzioni di oggi che interrogativi pongono alle Chiese?
«È un ecumenismo involontario che testimonia che cristiani di diverse Chiese, dal cattolico al pentecostale, vivono la loro fede come cristiani, sono martiri della Chiesa di Dio, non di quella battista, riformata o cattolica o copta. Questo è l’ecumenismo. Meravigliosa e tragica testimonianza della coscienza cristiana fondamentale, per la quale è in gioco Cristo, non una confessione o una Chiesa. È la fede cristiana la posta in gioco, e per Cristo vale anche la pena di sacrificare la propria esistenza».
Esiste poi l’ecumenismo della vita, nella carità. Le grandi migrazioni di massa, la giustizia sociale, le povertà materiali e spirituali di interi popoli… Fenomeni del genere che tipo di testimonianza chiedono alle Chiese?
«Sono cose molto belle da incoraggiare, moltiplicare. È un tipo di unità, anche se non è totale. L’unità cristiana si svolge a due livelli fondamentali, di azione e di dottrina. Nella prima ci si intende facilmente, il raggio di cooperazione è molto ampio. E, da un certo punto di vista, è più “facile”, perché pone meno problemi della seconda».
Oggi la salvaguardia dell’ambiente e di un’ecologia integrale, al centro della Laudato si’ e del magistero del patriarca Bartolomeo, è una nuova frontiera ecumenica?
«Certo. E le Chiese, come sempre, arrivano tardi. Ricordo che il tema ecologico era posto dal movimento ecumenico fin dagli anni Settanta, con il famoso programma, intorno al quale si sono fatte assemblee mondiali, “Pace, giustizia e salvaguardia del creato”. È una trinità che deve essere mantenuta. Io stesso a quel tempo mi sono stupito di sentir parlare, a livello ecumenico, del problema dell’acqua. Non esisteva ancora a livello di coscienza, né cristiana né civile, la consapevolezza del grande problema dell’acqua per l’umanità. Il problema ecologico per l’intera umanità, a livello ecumenico, è stato posto da tempo. Le Chiese sono state avvertite. E speriamo che finalmente queste cose divengano patrimonio della vita».
La vita delle Chiese si intreccia con la storia del mondo. E oggi numerosi sono gli episodi di “cronaca”, i temi cosiddetti sensibili, che creano frizione nel mondo delle Chiese. Quali i nodi più grandi?
«Sui temi cosiddetti sensibili, che sono effettivamente difficili e complessi, rientra il discorso che facevo sull’insufficienza delle Chiese a essere Chiese da sole. La Chiesa cattolica affronta il problema dell’eutanasia: perché non interroga la altre prima di pronunciarsi? Quella protestante approva l’aborto come diritto della donna. Perché non si confronta prima con Chiese che, su questo punto, la pensano diversamente? È questo il problema. Le Chiese dovrebbero uscire dal monologo, dall’ “io basto a me stessa”, per dare una risposta cristiana all’eutanasia, all’aborto… Non basti a te stessa, confrontati con le altre che su questo punto la pensano diversamente, non per assumere il loro punto di vista, ma per dire almeno che la tua è una posizione tra le altre. Ma nessuna Chiesa lo dice, perché tutte, essendo ancora malate di autosufficienza, dicono che la loro è “la” posizione cristiana».
Nella sua vita quali sono stati i momenti in cui ha sentito più forte questa unità?
«Appartengo a una piccola Chiesa, quella valdese, e man mano che ho scoperto le altre Chiese, le altre tradizioni, mi è venuta la nostalgia dell’unità. Grazie a Dio ho fatto tante esperienze: la liturgia ortodossa partecipando a Mosca a certi riti, addirittura a un pontificale, una liturgia presieduta dal patriarca; o a culti luterani vecchia maniera, o pentecostali in cui mi chiedevano di predicare… Ho partecipato a diversi modi di rendere culto a Dio. È una ricchezza, una cosa bella questa varietà, questo pregare con la stessa tensione verso Dio. Man mano che conosci gli altri cristiani diventi un nostalgico dell’unità, intesa non alla vecchia maniera, ma come pluralità condivisa, accettata, gradita. La si desidera. Non è un momento, è un processo, quello di conoscere l’altro cristiano. E non si finisce mai. La Chiesa è un mosaico, tante tessere, tante storie, tante vicende. Tutte intorno al Signore».
scritto da Paolo Zambaldi, ripreso dal sito “Alzo gli occhi verso il cielo” del 10 febbraio 2021
segnalato da Alessandro Bruni