di Alessandro Bruni. focus caregiver
Da quattro anni sono caregiver familiare di mia madre. Il mio ruolo e l'attività conseguente ha seguito il suo declino da persona autonoma a parzialmente autonoma ed infine a persona fisicamente allettata non per malattia specifica, ma per semplice invecchiamento (ora ha 95anni). Rispetto alla cura di anziani affetti da patologie cognitive invalidanti, la mia condizione è di privilegio dato che riesco ad avere un rapporto personale soddisfacente con mia madre, pur nell'alternarsi di giorni positivi e negativi. La mia è stata una scelta volontaria di affetto guidata sul piano delle competenze da mia figlia che è OSS in un centro anziani e con l'aiuto pratico e relazionale di mia moglie, che arbitra i miei sconfinamenti. Ho così imparato ad accudirla, ad alzarla, a cambiarla, a lavarla, a darle da mangiare. Dormo in una stanza accanto e lei è dotata di avvisatore acustico per chiamarmi in ogni momento del giorno e della notte. Ho la fortuna di avere figli che mi sostengono in questo ruolo di figlio caregiver (grande valore aggiunto).
Ultimamente ho però notato che la nostra relazione reciproca è divenuta di forte dipendenza (io la chiamo con un nickname e lei dice che sono il suo papà). Lei ogni giorno aumenta la sua richiesta relazionale sia sul piano affettivo che pratico, e ogni giorno io mi sento sempre più condizionato, tanto da dover limitare i miei compiti di marito, padre e nonno per dedicarmi a lei. Sento che con lei si sta instaurando un rapporto simile a quello tra tossicodipendente e pusher, dove in modo alterno sono ora dipendente e ora pusher. Così non va. Sono sulla strada della sindrome di burden?
Chi è il caregivar familiare e qual'è il suo stress?
Come è noto con il termine anglosassone caregiver si intende, in generale, “colui che si prende cura”. Il termine caregiver è usato per definire la figura di riferimento di qualcuno che si trova in una condizione di necessità e non completa autosufficienza. Il caregiver spesso presta la sua assistenza volontariamente: si tratta di una scelta che, anche nelle situazioni migliori, comporta un carico di responsabilità, preoccupazioni ed incombenze. Il caregiver famigliare non ha ferie stabilite né giorni di malattia se non per eccezionale e temporanea sostituzione da parte di un altro familiare o di una badante.
Caregiving: un processo e non uno stato
Una certa dose di stress è connaturata nella scelta di prendersi cura di un altro, e il caregiver può trovarsi senza rendersene conto a fare sforzi e rinunce, a negarsi occasioni di svago e socialità. Lo stress non è di per sé un problema (è una reazione normale), ma i guai iniziano quando questi stimoli sono troppo intensi, eccessivi, o si prolungano nel tempo, costringendo la persona a “consumare” moltissime energie e risorse psicologiche per tamponare la situazione. Senza dubbio la presenza di una rete di supporto (istituzionale o familiare) è un fattore positivo, in grado di alleggerire il carico del caregiver, ma non sempre la può avere perché la relazione con l'assistito diviene tanto stretta e esclusiva da impedire qualsiasi altra soluzione.
Il burden del caregiver
Il burden del caregiver è essenzialmente una forma di stress, che tende a cronicizzarsi quanto più si prolunga la situazione di accudimento, e si manifesta tipicamente in forme soggettive. Sul tema già mi sono dilungato in un post precedente, ora lo affronto su un piano più personale dovuto ad una evoluzione che so essere comune in quanti svolgono questi compiti in famiglia.
Spesso il caregiver va incontro a una trasformazione quasi totale del proprio stile di vita e questo può comportare difficoltà nell’ambiente di lavoro, con gli altri membri della famiglia, con la propria rete di amicizie. Non meno importante è la sensazione di non riuscire a fare fronte alle esigenze di cura, che spesso caratterizza la condizione di burden. In letteratura sono state individuate almeno cinque modalità con le quali la sindrome di burden condiziona la vita del caregiver:
- carico oggettivo: riguarda il numero di ore dedicate alla cura continua del proprio familiare;
- carico evolutivo: comporta la sensazione di non poter condurre il tipo di vita dei propri coetanei;
- carico sociale: si riferisce a tutte le difficoltà che conseguono dal tentativo di conciliare la vita sociale con l’impegno assistenziale;
- carico fisico: riguarda il dispendio di energie impiegate nell’attività di assistenza;
- carico emotivo: è relativo ai comportamenti che caratterizzano il declino cognitivo dell'assistito.
A queste critiche modalità comportamentali bisogna poi aggiungere i principali sintomi sperimentati dal caregiver quando questa condizione di stress persiste per molto tempo sono (i punti con asterisco sono la mia condizione attuale):
- problemi del sonno*
- problemi nell’appetito
- flessione dell’umore*
- difficoltà di attenzione e concentrazione*
- difficoltà a ricordare*
- irritabilità, ansia
- preoccupazione persistente*
- sintomi da somatizzazione
- facilità ad ammalarsi
Spesso il caregiver può sentirsi ipercoinvolto, sentendo di aver assunto una responsabilità che non può delegare, al punto da percepire come una propria colpa anche eventuali criticità o peggioramenti nel proprio parente ammalato (è il mio caso). L’intensità dei sintomi può essere tale da portare il soggetto a dover ricorrere egli stesso ad una cura medica (ci sto pensando...).
La letteratura scientifica rispetto a questo concorda sul fatto che il burden non solo danneggi la salute fisica e psicologica del caregiver, ma comprometta anche la sua capacità di accudimento. Questo crea un circolo vizioso: il caregiver sta peggio e la sua capacità di assistere il malato cala, questo porta ad un peggioramento delle condizioni del paziente, questo peggioramento amplifica le sensazioni spiacevoli nel caregiver e il circolo vizioso si perpetua.
Per questo è importante riconoscere i segnali di stress eccessivo il prima possibile. Proprio per evitare di instaurare un circolo vizioso dannoso per pazienti e caregiver. Spesso il caregiver sotto stress cerca dei modi per silenziare le sensazioni negative che prova. Non si concede di sentire le sensazione ed emozioni negative finché queste non sono eccessive e preponderanti.
Ma questo quotidiano resistere alle emozioni negative alla lunga logora e diventa esso stesso un problema. Quanta energia ci costa sopprimere certe emozioni? Quanta fatica facciamo? A cosa rinunciamo per non sentire? La prospettiva psicoterapeutica è quella di smettere di combattere questa battaglia per non sentire e di accogliere le emozioni, anche quelle sgradevoli, per ritrovare energie e contatto con il proprio mondo emotivo. Quindi a prendere mano al proprio dolore per quello che è senza senso di colpa.
Dolore pulito e dolore sporco
Il caregiver deve imparare a distinguere tra “dolore pulito” e “dolore sporco” (cosa non sempre facile e per me ansiogena). Il dolore pulito è quel dolore che deriva da piccole e grandi fatiche quotidiane e dagli eventi che normalmente ci troviamo ad affrontare, comprese perdite e lutti.
Il dolore sporco nasce invece dai nostri tentativi di non sentire le emozioni sgradevoli. E’ in definitiva un dolore in più che aggiungiamo al dolore pulito. Infatti qualsiasi strategia che usiamo per non sentire dolore di fatto lo rimanda. Possiamo rimandare il dolore per un breve periodo, ma non possiamo eliminarlo. Nel medio lungo periodo ci ritroviamo ad aver smesso di ascoltare i nostri bisogni e ora non sappiamo più rilassarci o come prenderci cura di noi (la mia attuale situazione).
La letteratura psicologica ci viene in aiuto: dunque, la strada per stare meglio e per gestire lo stress nel caregiver passa non dall’evitamento delle emozioni sgradevoli… ma dalla loro accettazione. Ecco perché, anche nell’accogliere la sofferenza il caregiver può ritrovare il suo ruolo con:
- imparare a conoscere i campanelli di allarme del proprio corpo e prendere consapevolezza delle difficoltà così come si presentano: pensieri, emozioni e sensazioni difficili;
- trovare modi per gestire lo stress che deriva dalle nostre reazioni automatiche a queste difficoltà;
- comprendere l'invalidità del proprio familiare come qualcosa che è al di fuori del nostro controllo e non come un problema da risolvere;
- esplorare cautamente i propri sentimenti difficili, il senso di impotenza e di perdita, al di là dei vissuti che spesso si cerca di evitare: la rabbia, la tristezza, la paura;
- migliorare la vita di tutti i giorni, scegliendo ogni comportamento non come semplice conseguenza della situazione, ma ritrovando la capacità di scegliere nel quotidiano le proprie azioni, dando loro significato.
Giuste considerazioni sulla carta, ma difficili da attuare. Io intanto con questo post faccio un tentativo autoterapia per cercare di liberarmi di questa colla emotiva che mi sta trasformando in un (tossico) dipendente. L'unica soluzione efficace che per ora ho trovato è ritagliarmi un po' di tempo per camminare. Man mano che passano i giorni allungo il percorso, sono sulla media di 10 km al giorno, due ore solitarie con i pensieri quotidiani erosi dalla fatica. Qualche lettore mi può insegnare a coltivare un comportamento di sano egoismo meno faticoso?
scritto da Alessandro Bruni prendendo spunto da un articolo della dott.ssa Prasanna Orler, pubblicato in Ospedale Maria Luigia.it