di Novella Benedetti.
Mi sento come dentro una lavatrice: giro e giro ma non arrivo a niente” mi ha detto, qualche anno fa, un uomo che stavo intervistando per una ricerca.
“Siamo andate troppo veloci: è come se avessimo fatto il passo troppo lungo, e gli uomini adesso non riuscissero a starci dietro. Forse ci voleva più moderazione”, mi ha riportato durante la stessa ricerca una donna.
Ora, generalizzare non va mai bene; però forse possiamo dire di avere – in questo momento - un maschile almeno in parte disorientato, non più padrone assoluto ma neanche in posizione completamente paritaria rispetto al femminile. Posizionato più in alto nella scala gerarchica, questo ancora sì; ma con un potere progressivamente eroso da una richiesta di diritti a cui non si può sottrarre. Una parità che inevitabilmente prima o poi si raggiungerà: alcuni sono pronti e ci stanno lavorando, vuoi per un senso di giustizia sociale, vuoi perché ne vedono i benefici; alcuni la rifiutano del tutto. In mezzo, tanti grigi – come l’uomo citato.
Dall’altra parte abbiamo un femminile diviso; innanzi tutto tra chi vorrebbe avanzare e chi vorrebbe tornare indietro. E poi anche tra chi vorrebbe avanzare: da un lato chi è in lotta per i propri diritti senza mezzi termini. Dall’altro un femminile per cui rivendicare i propri diritti va bene, ma è necessario farlo nel rispetto e con gentilezza verso l’altro, con un approccio accogliente ed inclusivo – come la donna riportata. In mezzo, anche qui, una grande varietà di grigi.
Le conseguenze di questo squilibrio nella condizione maschile e femminile le tocchiamo con mano tutti i giorni, e le abbiamo affrontate in un articolo precedente. Quella più estrema la conosciamo tutti: il femminicidio.
A inizio febbraio l’Istat ha pubblicato un’infografica che analizza l’andamento degli omicidi e dei femminicidi prendendo in esame il biennio 2018-2019. Si conferma un trend che prosegue dal 1992: gli omicidi diminuiscono, i femminicidi restano stabili. Cito: “La serie storica degli omicidi per genere mostra come siano soprattutto gli omicidi di uomini a essere diminuiti in 25 anni (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,8 nel 2017), mentre le vittime donne di omicidio sono rimaste complessivamente stabili (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine)”.
È difficile parlare di omicidi di donne, soprattutto quando si tratta di femminicidi: da un lato siamo anestetizzati dai numeri. Dire che più o meno un giorno sì e uno no un uomo ammazza una donna (150 femminicidi nel 2019, dati Istat) non ci fa un grande effetto.
Allora si prende la storia di un caso speciale : affinché se ne parli la vittima deve presentare un qualche elemento che la renda particolare. Permane molto forte l’idea che in parte sia colpa della vittima, che ci sia una sorta di co-responsabilità: se l’uomo l’ha ammazzate, qualcosa avrà pur fatto. Eppure – bisogna continuare a ripeterlo, pur alzando gli occhi al cielo per la banalità e l’ovvietà della cosa – il colpevole è sempre chi commette la violenza; mai chi la subisce. Eccezioni non ce ne sono. Nel colpevolizzare le vittime non si può fare a meno di notare una società che costringe gli uomini a rimanere eterni bambini, mai fino in fondo responsabili delle loro azioni.
Donne, si potrebbe iniziare a pensare di aiutarli a crescere? Uomini, a voi va davvero bene così?
Si osserva poi un terzo trend. Come per ogni argomento, esiste la sua corrente negazionista o minimizzante: i numeri sono falsati, le statistiche dipende come le leggi, e poi perché nessuno parla della violenza delle donne contro gli uomini. Da qui al complottismo il passo è breve. Non è questa la sede, ma volendo possiamo parlarne in futuro.
Ce la faremo mai ad affrontare questo problema in maniera seria, ponderata e responsabile - da adulti, insomma? Possibilmente senza parlare di emergenza, perché un fenomeno che va avanti da 30 anni (almeno) non può essere considerata un’emergenza. È un problema strutturale.
Forse bisognerebbe partire dalle basi: ci sono persone che ancora questionano l’utilizzo del termine femminicidio, peraltro registrato nella lingua inglese già dal 1800. È diverso dall’uxoricidio perché non muoiono solo mogli; ed è diverso dall’omicidio perché diverso è il movente. È un altro fenomeno, che purtroppo ha dimensioni tali per cui è stato necessario inventare una parola per raccontarlo: il femminicidio è l’omicidio di una donna in quanto tale.
Se mentre cammino per strada vengo rapinata ed i criminali mi uccidono –non è femminicidio, perché il motivo alla base del crimine è che volevano i miei soldi. Se invece vengo ammazzata da una persona perché prendo delle decisioni che riguardano me e vanno contro quello che l’altra persona vuole che io faccia - allora è femminicidio.
Le donne che vediamo nei telegiornali con una frequenza assurda sono state uccise, nella maggior parte dei casi, dai propri compagni. Le hanno ammazzate perché nutrivano desideri diversi dai loro – spesso per aver cercato di lasciarli.
Questi sono femminicidi: il movente è uno squilibrio di potere, basato sulla convinzione che l’uomo sia il capo assoluto e indiscusso. Così assoluto da avere potere sulle decisioni della donna (e su di lei, sul suo corpo, sui suoi pensieri, sul suo intorno). Un potere così interiorizzato da far percepire all’uomo un’ingiustizia subita il fatto che la donna voglia vivere la sua vita a modo suo. E davanti alle ingiustizie – vere o presunte che siano - si reagisce.
I femminicidi rivelano dinamiche di potere.
Non si tratta di troppo amore, perché il potere non ha nulla a che vedere con l’amore.
Non sono neanche raptus (nella maggior parte dei casi): lo sappiamo perché gli uomini arrivano preparati. Comprano armi, studiano i percorsi delle loro vittime, aspettano i momenti più opportuni, le attirano in trappole pensate con anticipo. Da un lato è un sollievo sapere che non si tratta di raptus: altrimenti guardando ai dati dovremmo necessariamente trarre la conclusione che un’ampia fetta della popolazione maschile abbia seri problemi di salute mentale per esserne vittima un giorno sì e un giorno no.
Ci dicono che la soluzione passa per il dialogo. Tuttavia per dialogare ci vogliono due parti. Se buona parte del maschile non è pronto, non è interessato, non sa come fare o semplicemente non ne ha voglia resta una domanda: che si fa?
scritto da Novella Benedetti, pubblicato in Unimondo del 16 febbraio 2021
segnalato da Alessandro Bruni