a cura di M.F., Fondazione Leonardo. focus senilità focus fine vita focus caregiver
Premessa di Alessandro Bruni. Un film sempre attuale, da rivedere prima della vecchiaia, prima dell'età del desiderio di affetto, del dolore, della fragilità e degli atti estremi dell'amore di dedizione. Un tema normalmente inaffrontabile, non solo in un film, ma anche nella conversazione tra amici, nella vita quotidiana: "Uffa, parliamo di cose più allegre!". Difficilmente si è disposti ad addentrarsi nei normali meandri di sofferenza determinati dal lento declino psicofisico di chi si ama, difficilmente ancora si capisce chi a quel declino vuole dedicarsi per amore, per umana responsabilità di caregiver familiare. Queste persone sono socialmente viste come eccezionalità, come coloro che vogliono farsi del male e non per una condizione sociale sempre più "normale" perché la sanità pubblica non potrà reggere all'aumento degli anziani non più autonomi. Mind ha dedicato a questo tema una serie di articoli belli, dolorosi ed avvincenti, sottolineati dall'Editoriale di Marco Cattaneo nel numero di marzo 2021. Dice Cattaneo:
Sono stati anni di alti e bassi – sempre meno spavaldi gli alti e sempre più cupi i bassi – quelli della demenza vascolare che si è portata via mia mamma. Anni in cui ho raccolto appunti dal suo sprofondo e dalle mie disavventure con la burocrazia. Di tanto in tanto quegli appunti diventavano racconto, condivisione, sulle pagine di quello scombinato libro collettivo che è Facebook. Era il mio modo per esorcizzare il dolore e al tempo stesso dare sollievo a chi – erano tanti – attraversava o aveva attraversato la stessa odissea. Era mancata da poche settimane, mamma, quando un’amica di social network mi ha segnalato i post di un tale che raccontava un universo parallelo al mio, lì e sul blog collettivo Poetarum Silva. Ma meglio di me. È così che in redazione abbiamo deciso di imbarcare Marco e Lucia in quell’avventura che abbiamo battezzato "Diario di un caregiver". Il viaggio di Marco Annicchiarico a bordo di "Mind" si conclude con questo numero, dopo 27 puntate in cui ci ha raccontato con passione, tra una sterminata fioritura di aneddoti, il suo cammino di figlio caregiver accanto a Lucia, informandoci al tempo stesso su chi e come può dare assistenza ai malati di Alzheimer e ai loro familiari.
La morale “anarcoide” di questo film duro e crudele è che per amore si possa legittimamente interrompere una sofferenza insopportabile. La legittimità non viene dalla promessa fatta alla persona amata di non ricoverarla in una casa di cura, bensì, principalmente, dall’imperativo di risparmiarle il degrado che non può non ferire il suo senso del decoro e del rispetto do sé. Qui una valutazione puramente estetica trascende la morale comune, diventa discrimine basato sulla bellezza intesa come valore supremo. Per questo, forse, i protagonisti della storia amara raccontata da “Amour” sono due musicisti. Anzi, di più: sono due insegnanti di musica, persone che, mettendo forse da parte un possibile protagonismo, hanno scelto di destinare le loro vite a coltivare e affinare il talento degli altri.
Per questo ci piace pensare che la scelta disperata di George di liberare l’amata Anne dall’orrore del disfacimento (dopo ben due ictus, caricando sé stesso di un inestinguibile senso di colpa) dovrebbe essere valutata con il metro di chi tutto ha impegnato per la diffusione della bellezza pura: la musica.
Se il racconto non è corredato da quelle “armoniose” parentesi che il cinema talvolta inventa per rendere sopportabili le storie più dure è perché, nell’accompagnarti sempre più in basso in una malattia che mentre divora il corpo ti spegne anche l’anima, non c’è nulla di armonioso. La musica è rimasta altrove. Quando cessa di consolarti pure nel ricordo, la tentazione dell’amore è quella di sbarrare la porta all’insulto di giorni di pura vergogna. Anne e George hanno vissuto per la musica. Quando la musica tace, che senso ha andare avanti?
Mentre l’interrogativo rimane sospeso, conviene soffermarci un momento su altri momenti del film che concorrono a renderlo un’opera originale.
Colpisce ma non stupisce l’atteggiamento della figlia dell’anziana coppia. La giovane donna, tutta presa dai suoi concerti in giro per l’Europa, fa irruzione un paio di volte nella casa del dolore, sempre per manifestare disappunto quando non esplicita disapprovazione, per quel che – lascia intendere – è un modo inadeguato di affrontare la tragedia:
- Cosa possiamo fare? Non possiamo lasciarla così.
- Quello che fanno in un istituto per anziani possiamo farlo anche qui. E poi non possiamo andare in un istituto per anziani, glielo ho promesso.
- Non posso credere che non ci siano altre cose da fare.
Così, dialogando con il padre.
È l’atteggiamento di chi, non sapendo stare in una situazione che va oltre le sue capacità di comprendere e di risolvere, sceglie di manifestare disapprovazione verso chi, il problema, lo sta affrontando nell’unico modo possibile. Nella seconda visita, quando la situazione della madre si è ulteriormente aggravata, il malessere che comunica al padre, con riserve e dubbi, non è altro che la proiezione della sua stessa impotenza, inadeguatezza, se non addirittura di un filiale senso di colpa. Allora il padre è costretto a sbottare:
- Non ho tempo di preoccuparmi della vostra preoccupazione: è triste e umiliante per lei come per me. Mi fa arrabbiare sentirti pontificare su quello che è bene, su quello che non è bene.
- Parliamo seriamente, un momento, papà.
- Cosa vuol dire per te parlare seriamente? Vuoi che la portiamo a casa tua? Vuoi spedirla in una casa di cura per anziani? È questo, per te, parlare seriamente?
L’altra notazione interessante è quella che riguarda il deficit di sensibilità che a volte manifestano le persone alle quali ci dobbiamo affidare per assistere i nostri cari. Il problema esiste e andrebbe forse valutato in relazione alle peculiari aspettative dell’assistito, diverse per condizione, educazione e sensibilità. Qui un’assistente pettina Anne, con garbo e con cura, almeno ci sembra, ma, a operazione ultimata, insistentemente chiede alla malata di guardarsi allo specchio. Lei rifiuta, non vuol vedere la sua immagine. Soltanto per questo, se qualcosa non ci è sfuggito, viene licenziata da Georges con parole forse troppo dure:
- Le auguro con tutto il cuore che un giorno qualcuno tratti lei come lei tratta i suoi pazienti.
Ecco, è forse in questa battuta, tanto severa da apparire sul momento esagerata, la chiave di comprensione dell’intera storia. Siamo al cospetto di sensibilità fuori del comune, le stesse che generano risoluzioni altrettanto fuori del comune. Viene spontaneo pensare: possibile, per un colpo di spazzola non apprezzato? Possibile un provvedimento tanto grave, motivato in modo tanto duro? È vero, siamo nell’eccesso, lo stesso che ha suggerito un’azione che condannerà qualcuno a vivere il resto dei suoi giorni macerandosi nel rimorso. Il tutto per “Amour”. Ma può l’amore essere eccessivo, quando decide di sacrificare sé stesso per proteggere la dignità della persona amata? Per comprendere ci aiuta un flash back, come si usa al cinema. Un ex allievo di Anne va a farle visita e dice semplicemente:
- Il merito del mio successo è suo.
- Non è vero, il merito è della tua tenacia e del tuo talento.
Subito dopo, salutato il giovane, vediamo lei azionare i comandi della sedia a rotelle, come una bambina che sta giocando. Ma siamo al tempo del primo ictus, Anne si muoveva già sulle ruote, ma la mente era lucida, la voglia di emozioni ancora viva. George si sarà chiesto, mentre lei sussurra ormai solamente “Male, male, male”, si sarà chiesto “Questa donna preferirebbe essere ricordata mentre ripete all’infinito questa lugubre litania, oppure mentre gioca con le sue ruote, come una bambina, percorrendo, nel corridoio di casa, l’ultimo momento di felicità”?
scritto da M.F., pubblicato in Fondazione Leonardo il 5 marzo 2021
segnalato da Alessandro Bruni e dedicato a Patrizia Q. che si pone il problema di vivere la vecchiaia nella non autonomia e dal dover dipendere dal sacrifico delle persone amate.